Gruppo estremista islamico uccide un altro cristiano in Nigeria

Mark Ojunta

Lo scorso 27 Agosto dei membri della setta islamica Boko Haram hanno ucciso l’evangelista nigeriano Mark Ojunta, 36 anni, che esercitava il suo ministerio in mezzo al popolo Kotoko, nello stato nigeriano nord-orientale di Borno, con Calvary Ministries (CAPRO). L’uomo, che lascia moglie e due figli piccoli, è stato ucciso a Maiduguri, ed è stato poi sepolto nel suo stato natale di Abia, nel sud della Nigeria, il 30 settembre.

Il Direttore Internazionale di CAPRO, Amos Aderonmu, ha detto che Ojunta è morto “come un martire sul suo campo tra i Kotoko”.

Via | Compass Direct

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India, Orissa: “Per non essere uccisi, siamo stati giorni nella foresta senza cibo”

Una vittima racconta le violenze dello scorso giugno nell’Orissa. Suo padre, il pastore cristiano Biswanath Digal, è stato ucciso a bastonate.

New Delhi – “Durante l’ultima ondata di violenza anticristiana, i fanatici indù hanno prima distrutto la chiesa del nostro villaggio, poi hanno bruciato completamente le case dei cristiani e distrutto col fuoco qualsiasi cosa ci fosse dentro. Quindi hanno iniziato a cercare noi cristiani per ucciderci. Per salvarci siamo dovuti fuggire nella foresta e fino alle colline e restare nascosti”. Lazara Digal, unico figlio del pastore cristiano Biswanath Digal del villaggio Ladapadar (nel distretto Kandhamal in Orissa), trucidato in quei giorni, ricorda l’orrore delle ultime violenze anticristiane e punta il dito contro le autorità assenti.

95 cristiani vittime di persecuzioni hanno partecipato al 5° Incontro sulla persecuzione nazionale, a Bangalore il 4 e 5 marzo, organizzato dal Consiglio globale degli indiani cristiani (Gcic) con l’intervento di oltre 250 gruppi cristiani e non. Una speciale menzione è stata resa a Kaunri Digal, vedova del pastore ucciso.

“Siamo rimasti nascosti per 10 giorni –prosegue Lazara Digal- senza cibo e sotto una pioggia battente. C’erano circa 20 famiglie, potevano solo piangere e pregare Dio. Dopo 10 giorni abbiamo saputo che erano arrivate le forze dell’ordine. Allora siamo tornati. La polizia ci ha assicurato che ci avrebbe protetti, se tornavamo al villaggio. Nelle case, nel villaggio non era rimasto nulla, nemmeno riso a sufficienza per sfamarci, nemmeno era possibile riprendere il normale lavoro. Così in molti abbiamo deciso di andare a Bhunaneswar o a Cuttack, per trovare lavoro e guadagnare di che vivere. Ma i nostri genitori sono rimasti al villaggio”.

“Il 4 giugno 2009 mio padre, il pastore Biswanath Digal, insieme al cristiano Prasantha Digal, sono andati in motociclo a Phulbani, circa 14 chilometri da Ladapadar. Dopo avere fatto il loro lavoro e qualche compera, alle 7 di sera stavano tornando a casa. Ma alcuni estremisti indù li avevano notati e un gruppo tra 40 e 50 li aspettava, armati di bastoni e asce. Quando i due cristiani erano a Minia, vicino alla foresta di Pidiakali, il gruppo è saltato fuori e li hanno fermati. Erano ubriachi, li hanno insultati e iniziato a colpirli coi bastoni, urlando Jai Sri Ram e Jai Bajrang bali ki jai! ‘Uccidi il pastore, così gli altri cristiani di Ladapadar diverranno indù’. Li hanno percossi fino a far loro perdere conoscenza. Allora hanno pensato che fossero morti, li hanno lasciati lì e sono andati via. Sono rimasti così per 2-3 ore, prima che un viaggiatore li vedesse e informasse la polizia di Bisipadar”.

“La polizia li ha portato all’ospedale del distretto di Phulbani. Dopo due giorni di cure, mio padre ancora non aveva ripreso conoscenza. Poiché non avevamo denaro per pagare, su consiglio dei medici lo abbiamo portato all’ospedale di Cuttack, il 7 giugno. Per giorni lo hanno curato, senza risultato. Alla fine i medici hanno detto di portarlo a casa. Ma non avevamo una casa, perché era stata distrutta dai fanatici indù”.

“Il 19 giugno lo abbiamo portato da un parente, nei quartieri bassi di Bhubaneswar. E’ morto il 23 giugno, senza avere mai ripreso conoscenza. Lo abbiamo riportato al nostro villaggio e sepolto lì. Per la perdita, mia madre ha avuto un collasso e una paralisi che non le permette di camminare”.

“Fretello Asit Mohanty, coordinatore regionale di Gcic, l’ha visitata in ospedale, ha pregato con lei e le ha lasciato denaro per le cure mediche, perché io ora sono disoccupato e non ho redditi. Mia madre è stata in ospedale, ma non ha avuto miglioramenti e l’hanno dimessa. Ora vive a casa di un parente, è paralizzata e costretta a stare a letto”.

“Shri Prashanta Digal, aggredito insieme a mio padre, è stato in ospedale per 7 giorni, le sue ferite non erano gravi”.

Sajan K. George, presidente Gcic, nel saluto ai partecipanti all’incontro a Bangalore ha ricordato come “il nostro Paese sia fondato sul riconoscimento che ogni essere umano ha diritti inalienabili per diritto di nascita. Ma le minoranze cristiane subiscono discriminazioni in ogni ambito. La Costituzione indiana garantisce la libertà religiosa. Ciò nonostante, nel 2009 ci sono state 177 brutali aggressioni contro i cristiani”.

L’incontro si doveva concludere con una marcia di protesta fino al municipio di Bangalore, ma non è stata autorizzata. (NC)

Fonte: AsiaNews – riprodotto con autorizzazione

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Spagna, a Siviglia un Museo dell’Inquisizione

Il Castello di San Giorgio a Siviglia ha aperto le porte al pubblico il mese scorso. L’edificio, che fu un quartier generale dell’Inquisizione nella città dal XV al XVIII secolo, è ora a tutti gli effetti un museo sugli orrori che si perpetrarono tra le sue mura.

Il nome esatto del percorso di visita della parte del castello aperta è: “Uno spazio di riflessione: il Castello di San Giorgio“. Una sala offre ai visitatori un video che mostra loro cosa significasse essere vittima di un processo dell’Inquisizione, e soffrire in prima persona l’abuso di potere. Il percorso guidato conduce poi lungo un corridoio e mostra i resti delle mura dove i prigionieri gridavano in agonia durante le sessioni di tortura. Pannelli informativi descrivono la vita quotidiana nelle varie parti del castello: le scuderie, gli uffici legali, le cucine, le cantine e la casa dell’Inquisitore capo.

Una sezione ricorda i molti che soffrirono nell’edificio, tra cui molti protestanti, come Casiodoro de Reina, Constantino Ponce de la Fuente e Maria de Bohorques. Quest’ultima è descritta come “appartenente al gruppo protestante di Ponce de León, figlio del conte di Bailén, che fu accusato di aver ricevuto letteratura protestante da un mulattiere di nome Julián Hernández“. Era una donna colta che cercò di far passare le proprie idee come cattoliche, ma prima dell’esecuzione due gesuiti e due domenicani cercarono di “salvarle l’anima“. Se ne andarono impressionati dalla sua saggezza e da come difese la propria fede, ma questo non fu sufficiente a salvarle la vita. Fu bollata come “luterana” e il suo corpo fu in seguito bruciato.

Casiodoro de Reina, che viene ricordato con particolare ammirazione dagli evangelici per il suo lavoro di traduzione della Bibbia in spagnolo, è descritto come “un insegnante evangelico che studiò nel monastero geronimita di San Isidoro del Campo“. Era uno di quelli che riuscirono a scappare in esilio a Ginevra, e insieme a uomini come Cipriano de Valera e Antonio del Corro, divenne uno dei personaggi di spicco nella Riforma. L’Inquisizione si dovette accontentare di bruciare una sua effigie in un “processo” del 1562.

Un altro dei protestanti di cui si fa menzione è Constantino Ponce de la Fuente, “canonico in Siviglia per ordine del Vaticano“. Nel 1558 fu accusato dall’Inquisizione di essere un luterano. Avevano già in precedenza bruciato i suoi libri in pubblico, diffamato la sua persona e l’avevano confinato nel Castello di Triana, dove morì prima di essere processato.

Il museo è stato aperto dal sindaco di Siviglia, Alfredo Sánchez Monteseirín, e l’intero progetto è costato 2.5 milioni di euro. Lo scopo è quello di analizzare la natura umana, e in particolare come si possa essere vittima di un’intolleranza ed in seguito essere attivamente partecipe in un’altra intolleranza. Emilio Monjo, membro dell’Unità per gli Studi Protestanti di Siviglia, dice: “Essere all’interno di quelle mura che testimoniarono la fede dei nostri padri è un’emozione molto forte. L’intolleranza e l’oppressione che si percepiscono nel castello sono una sfida per il visitatore. Ognuno di noi si può vedere impotente davanti al potere, ma anche esercitare il potere sugli altri“. I fondatori del museo sperano che i visitatori mettano in discussione le proprie motivazioni e si chiedano quali sono i problemi della società di oggi, in modo che un’intolleranza di questo genere non debba ripetersi in futuro.

Fonte: Protestante Digital, El País, Diario de Sevilla, Emilio Monjo Editing: Daniel Hofkamp, ACPress.net

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Violenze contro i cristiani in Orissa, Video di “Porte Aperte USA” un anno dopo

http://www.youtube.com/watch?v=MQlzOoXEXQ4

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Corea del Nord, Pyongyang: esecuzione pubblica per una cristiana, distribuiva Bibbie

Attivisti sud-coreani per i diritti umani affermano che la donna è stata giustiziata perché “distribuiva copie della Bibbia” ed era “una spia” di Seoul e Washington. I genitori, il marito e i figli sono stati rinchiusi in un campo per prigionieri politici. Il regime nord-coreano dichiara “guerra contro le religioni”.

Seoul – Il regime nord-coreano ha giustiziato in pubblico una donna cristiana, accusata di “distribuire copie della Bibbia” e “attività di spionaggio” per gli Stati Unti e la Corea del Sud. Lo denuncia arriva da un gruppo di attivisti della Commissione investigativa sui crimini contro l’umanità, in un rapporto pubblicato ieri.

La sentenza di condanna a morte per Ri Hyon-ok, 33 anni, è stata eseguita il 16 giugno scorso a Ryongchon, città del nord-ovest poco distante dal confine con la Cina. Il giorno seguente, i genitori di Ri, il marito e i tre figli sono stati rinchiusi in un campo per prigionieri politici nella cittadina nord-orientale di Hoeryong.

Il documento riporta la foto del documento di identità rilasciato dal governo nord-coreano alla donna, a testimonianza dell’avvenuta esecuzione. Gli attivisti chiedono che Kim Jong-il venga processato per crimini contro l’umanità e confermano la crescita dei fedeli cristiani “sotterranei” nel Paese. Per questo Pyongyang – che a livello teorico ammette la pratica di culto – ha lanciato una vera e propria “guerra contro le religioni” con arresti, esecuzioni pubbliche e altri misure deterrenti. Fonti non ufficiali rivelano che in Corea del Nord vi sono più di 30mila fedeli cristiani.

Nei giorni scorsi un comitato indipendente sud-coreano ha diffuso un documento sui diritti umani in Corea del Nord: esso spiega che, pur diminuendo di numero, le condanne a morte sono tuttora applicate per una serie di reati che variano dall’omicidio alla distribuzione di film stranieri.

Fonte: AsiaNews/Agenzie – riprodotto con autorizzazione

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