Algeria: Abderrahmane Chibane, presidente dell’associazione degli ulema musulmani algerini, chiama i servizi di sicurezza ad opporsi agli evangelisti americani

Pubblicato il 18 febbraio 2008 su El Khabar

Abderrahmane Chibane, presidente dell’associazione degli ulema musulmani algerini, ha indicato che la chiesa evangelista in Algeria, « ricorre a metodi su cui i servizi di sicurezza sono chiamati a vigilare”. Egli ha dichiarato che degli evangelisti del Nord America, che fanno parte dei neoconservatori, “visitano alcune wilayas a fini politici”.
In una lunga lettera distribuita alla stampa ieri, Chibane ha dichiarato che gli evangelisti nord-americani ed i preti europei che visitano l’Algeria, “sono animati da una medesima convinzione”.
Secondo lui, le due parti intraprendono contatti con alcuni loro amici in diverse wilayas al fine di “servire degli obiettivi politici” che egli non ha precisato.
Chibane ha rivelato che gli evangelisti sono animati da una medesima convinzione secondo la quale gli altri cristiani hanno tradito il messaggio di Cristo, e il mondo vivrà in armonia solo al Suo ritorno, dopo l’edificazione di uno Stato che raggruppi tutti gli ebrei del mondo sulla terra di Palestina.
Chibane ha definito questa credenza “sionismo sul modello cristiano”, indicando che “i nostri figli algerini che hanno scelto il Cristianesimo come religione hanno adottato questa credenza”. Egli ha aggiunto che l’attività dell’associazione degli ulema “mette in rilievo l’applicazione della legge sulle religioni diverse dall’islam, sull’insieme del territorio”, sottolineando che l’apparato di sicurezza deve imperativamente intervenire per far applicare la legge sull’esercizio dei culti per i non musulmani.
Chibane, nella sua lettera, ha precisato che gli evangelisti si rivolgono generalmente “ai poveri, ai malati e agli analfabeti”.

18-02-2008
Par H. Yes/ Traduit par F.L

Fonte: Collectif Algérie/El Khabar

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Afghanistan – «Regalano la Bibbia»: ulema contro le Ong

I capi religiosi afghani chiedono al presidente Karzai di fermare «i missionari che fanno proselitismo»

«Ripristini le esecuzioni pubbliche»

DA KABUL
Chiedono di fermare le presunte attività di «proselitismo». E chiedono di ripristinare «le esecuzioni pubbliche». Si fa sempre più “insistente” il pressing del Consiglio islamico afghano, l’influente organo religioso formato dagli ulema e da altri leader religiosi del Paese, sul presidente dell’Afghanistan, Hamid Karzai. Nel mirino dei capi religiosi la presunta attività di proselitismo svolta, a dire degli ulema stessi, da gruppi umanitari stranieri. «Il Consiglio (islamico) è preoccupato dall’attività di alcuni organi missionari o atei e considererà tali attività come contrarie alla sharia (la legge islamica), alla Costituzione e alla stabilità politica» dell’Afghanistan, recita il documento presentato a Karzai, e reso noto dall’agenzia Reuters. Il pericolo che, secondo i capi religiosi, correrebbe l’Afghanistan è addirittura «la catastrofe»: «Se non si pone rimedio – si legge ancora nel documento –, ne scaturirà, che Dio non voglia, una catastrofe che non destabilizzerebbe solo il Paese, ma anche la regione e il mondo intero», scrivono ancora gli ulema afghani, secondo i quali i «missionari» cristiani avrebbero uffici a Kabul e nelle province preposti a «convertire» i musulmani. «Alcune Ong – si legge ancora nel documento del Consiglio islamico – incoraggiano (gli afghani) regalando loro libri (la Bibbia) e promettendo di farli andare all’estero». I leader religiosi chiedono inoltre di ripristinare, come avveniva durante il regime dei taleban, le esecuzioni pubbliche, almeno per omicidio, la mano dura contro la corruzione e la messa al bando dalla televisioni delle soap opera indiane, molto popolari in Afghanistan, bollate come «immorali e oscene». Non è la prima volta che gli ulema agitano «lo spettro» della penetrazione «religiosa»: un’arma politica per aizzare gli animi. E che in alcuni casi si è tradotta in “azione” da parte degli stessi taleban. Lo scorso 19 luglio nella provincia di Ghazni, nell’Afghanistan del sud, venne sequestrato un gruppo di 23 volontari cristiani evangelici sudcoreani. Due di loro vennero uccisi pochi giorni dopo il rapimento, gli altri furono liberati a distanza di alcune settimane, e dopo il pagamento di un riscatto. Tra le condizione poste dal gruppo di rapitori anche il ritiro del contingente militare di Seul dall’Afghanistan e la cessazione di ogni attività dei gruppi missionari sudcoreani entro la fine dell’anno. Nel 2006 quando scoppiò il “caso” di Abdul Rahman, il cittadino afghano convertito al cristianesimo e poi riparato in un Paese straniero, gli stessi ulema erano i prima linea per chiedere la condanna a morte del convertito. ( R.E.)

Fonte: Avvenire.it – 6 gennaio 2007

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