Cambogia: Lottare per sopravvivere

Vattey – 55 anni

Sono nata in Vietnam ma ho passato l’infanzia in Cambogia. Mio padre, militare, era un uomo temuto nei paraggi, perché andava nei paesi a reclutare giovani ragazzi affinché si impegnassero alla guerra.


Andai a scuola fino in 5a poi mi sposai a 14 anni con un soldato che mi amava. Mio marito era buono con me, ma mia suocera mi detestava. L’anno seguente quando i Khmer rossi invasero Phnom Penh, cambiai il mio nome vietnamita Toty Yang Houng in un nome cambogiano, Vattey, per paura di essere uccisa.

Separata da sua figlia

I Khmer rossi cercavano di distaccarci dalle nostre radici, dalla nostra famiglia. Separavano i figli dai genitori, i fratelli dalle sorelle… Nella speranza di restare insieme, molti fratelli e sorelle si spacciavano per marito e moglie. Il sospetto regnava dappertutto… Siccome ero giovane, nessuno credeva che fossi sposata, nonostante avessi una figlia di dodici mesi. Mi separarono dalla mia bimba, che rimase con mia suocera. Un giorno venni a sapere che mia figlia era malata, ma non fui autorizzata ad andare a visitarla. Ero molto preoccupata. Allora, a rischio della vita, ritornai a visitare il mio responsabile per supplicarlo di lasciarmi partire. Finalmente accettò e partii la notte stessa, camminando sola nella campagna deserta, spaventata ad ogni rumore.
Finalmente raggiunsi l’accampamento dove esse stavano e potei occuparmi della mia bimba. Poi tornai a lavorare alla risiera. Lavoravo come un uomo. Quando rimasi incinta del mio secondo figlio, non mi autorizzarono a riposarmi. Ero sfinita. Nonostante ciò partorii senza problema un maschietto.

Sfugge per un pelo alla morte

Nel 1979 correvano voci che l’esercito vietnamita era appena entrato in Cambogia per liberarci dai Khmer rossi. Impauriti dalla vicina disfatta, i Khmer rossi ci ordinarono di recarci presso il campo di esecuzione in piena notte… Si apprestavano ad ucciderci. Ma mia suocera, mio marito, io e i nostri due figli, riuscimmo a fuggire approfittando del panico generale. Corremmo, corremmo, corremmo nella speranza di raggiungere Phnom Penh. Tenevo il bimbo fra le braccia. Feci una caduta, lui si spaccò la testa. Il sangue colava… si riuscì a fermare l’emorragia. Impauriti, sfiniti, affamati, si continuava tuttavia a fuggire l’inferno khmer rosso. Quando il sole si levò, non se ne poteva più. Fu allora che scorsi una sorta di pacchetto: era del riso appiccicoso avvolto in un panno bianco! Non so quale fu la sorte della famiglia che dovette abbandonare quel prezioso cibo, ma ricordo di essermi precipitata sul cibo e di averlo diviso con la mia famiglia. Oggi, io so che fu Dio che lo permise. Ancora non lo conoscevo, ma Egli non permise che in quella notte noi morissimo.

Poco dopo, incontrammo un gruppo di soldati vietnamiti. Ci presero per Khmer rossi, ma quando ci spiegammo, ci lasciarono passare. Non sapendo dove andare, dormimmo sulla strada, mendicando riso ai soldati vietnamiti. Le settimane successive furono una battaglia quotidiana contro la fame. Cambiammo posto diverse volte.

Finalmente ci sistemammo a Mong, dove mio marito pescava del pesce che io barattavo con del riso. La vita era molto dura per noi. Poi dei cugini di mia suocera che avevamo ritrovato nel frattempo, ci invitarono ad alloggiare da loro. Raccoglievano lo zucchero di palma che barattavano con del riso. Molto presto però diventammo un peso per loro. Non sapevano come dirci di andare via.

Nei campi di rifugiati

Sentimmo parlare dei campi di Tailandia, dove delle organizzazioni straniere aiutavano i Cambogiani, allora decidemmo di andarci. I Vietnamiti però non ci lasciarono passare la frontiera.

La passammo di notte clandestinamente e raggiungemmo un campo di rifugiati. Dopo aver fatto molte domande,  i responsabili ci dettero riso e pesce secco che mangiammo avidamente. Ci potemmo sistemare in una casa di bambù col tetto di foglie.

Attorno a noi, i combattimenti non cessavano. I soldati continuavano a combattere di notte: prima contro i Khmer rossi, poi contro i Vietnamiti e i Tailandesi. Varie volte fummo bombardati e dovemmo cambiare campo. Si viveva sempre nella paura. Si erano fatte delle barricate di tronchi d’alberi e delle trincee nelle quali ci si rifugiava ad ogni bombardamento.

Malgrado tutto, ritrovammo una parvenza di vita. Mio marito fu richiesto per i suoi talenti di disegnatore. Il capo del campo gli chiedeva di fare dei quadri per offrirli al principe Ranareth, imprigionato in un campo Khmer rosso. Gli chiesero anche di illustrare dei giornali e di fare delle cartoline in acquerello. Mio marito ebbe sempre ottime relazioni sia con i ricchi che con i poveri.

Incidente e maltrattamento

Quando finalmente potemmo tornare in Cambogia, a Phnom Penh, la nostra casa era occupata da un’altra famiglia. Allora andammo in provincia, dove ricevemmo un piccolo appezzamento di terra. Mio marito lavorava come disegnatore per l’UNTAC (1). Ma un anno dopo, quando l’UNTAC si ritirò dalla Cambogia, si ritrovò disoccupato. Siccome la terra ricevuta era molto piccola per la nostra famiglia – avevo allora 5 figli – andammo a Oudong, dove ricevemmo 1.500 m2 di terra. Eravamo poveri: la nostra unica entrata era il pesce che rivendevo al mercato.

Mio marito partì in cerca di un lavoro a Kompong Chnang dove fu assunto come disegnatore per una ONG (2). Rimasi a Oudong con i bambini. Quattro mesi dopo, mentre mio marito andava a visitare degli amici in moto, ebbe un incidente. Fui avvertita solo 48 ore più tardi. Nessuno lo conosceva e lui era in coma. Quando riprese conoscenza, non mi riconobbe, non si ricordava di niente. Rimase paralizzato al braccio destro e al lato destro della faccia. Dovetti pagare molti soldi per curarlo. Di giorno vendevo pesce al mercato, di notte mi occupavo di lui. Mi parlarono di un medico che avrebbe potuto forse fare qualcosa per lui. Per pagare le spese e dare da mangiare ai miei bambini, vendetti i pochi gioielli d’oro che possedevo, poi la casa, poi la terra. Ma le radiografie e le cure ospedaliere erano care…

Di solito in Cambogia in casi simili, la famiglia è solidale… Ma non ho mai rivisto la mia famiglia dal genocidio. Dovetti chiedere in prestito dei soldi per curarlo. Il datore di lavoro di mio marito mi disse che gli dava un mese in più per ristabilirsi, dopo di che sarebbe stato costretto a licenziarlo. Crollai e replicai a quello straniero: “Se lei fa questo, uccide la mia famiglia”. Era un uomo buono che voleva molto bene a mio marito. Accettò che mio figlio di 14 anni sostituisse suo padre per illustrare i libri e le lezioni d’igiene che concepiva quella ONG. Ma il superiore cambogiano, geloso di questa protezione, umiliava mio figlio. Che fare? Era il nostro unico mezzo di sussistenza!

Mio marito, che aveva perso la ragione, divenne violento. Si impadroniva del denaro guadagnato per comprare cose inutili. Quando non c’erano soldi, si infuriava e diventava violento. Quante volte mi ha picchiata! Minacciava i bambini col coltello. Picchiò persino sua madre.

Disperata, sognai di suicidarmi diverse volte. Impiccarmi, prendere delle medicine… ma che ne sarebbe stato dei miei figli?

Incontro della speranza

Un giorno, il signor Sieu Mên, un pastore, venne nel mio villaggio per comunicare la buona novella dell’Evangelo. Discusse con mio marito che gli disse che volevo diventare cristiana. Ma io non conoscevo Dio! Ne avevo sentito parlare da mia figlia maggiore che si era convertita nei campi di rifugiati in Tailandia quando aveva 14 anni e che era assidua alle riunioni. Mi aveva anche detto con un tono risoluto che lei rifiutava categoricamente di sposare un non cristiano. Quindi, quando incontrai quel pastore, non sapevo proprio che dirgli. Gli dissi che non credevo nel Dio della Bibbia ma mia figlia sì. Il signor Sieu Mên cominciò a parlarmi.

– Dio è il creatore del mondo ed Egli t’ha creata.

Ascoltandolo non potevo fare a meno di pensare:

– Se Dio m’ha creata allora forse Lui si interessa di me…

– Su questa terra, tutti sono infelici. Anche quelli che hanno soldi sono infelici.

– È vero questo, anche quando avevo i soldi non ero soddisfatta. Sembra che racconti la mia vita… Come può sapere tutto ciò?

– Sai, Vattey, Dio accettò che il suo unigenito Figlio morisse sulla croce per salvarti dai tuoi peccati.

– Un Dio che fa questo è un Dio buono.

Mi ricordai di quel giorno in cui i Khmer rossi strapparono quel bambino dalle braccia di sua madre per ucciderlo. La povera donna, gridava, supplicava, piangeva… Ma quando essi minacciarono di uccidere anche lei se non stava zitta, spinse le sue due mani contro la bocca per soffocare il suo dolore…

Allora, un Dio che accetta di sua spontanea volontà che il suo unigenito Figlio muoia per amore per gli uomini… Rimasi sconvolta. Era possibile un tale amore?

Quel giorno, capii che Gesù è Dio. Da quando non avevo più soldi, la mia vita non aveva più valore per nessuno. Ero solo uno scarto buono ad essere gettato via. In quel momento, compresi che per Dio avevo valore, che Gesù voleva aiutarmi. È così che ho dato la mia vita all’Iddio vivente e vero nell’aprile del 1996.

Mi impegnai nella chiesa del pastore Sieu Mên. Tutti i sabati e domeniche andavo in chiesa per studiare la Bibbia. Un giorno, facemmo una riunione di preghiera speciale per la guarigione di mio marito. A poco a poco, la sua salute migliorò. Ritrovò il senno, anche se rimase tardo di mente. Non ci picchia più e si interessa di nuovo dei suoi sette figli che ama. Lui che non poteva neanche più sedersi senza cadere, può adesso muoversi normalmente. Prima ha ritrovato l’uso della mano, poi del braccio destro. Può di nuovo guidare e disegnare. Grazie oh Dio per questo miracolo.

(1) UNTAC: Missione dell’ONU (1991-93) che mirava a garantire un buon svolgimento delle prime elezioni democratiche dopo la caduta dei Khmer rossi.
(2) ONG: Organismo Non Governativo

Tratto da: Bruno Feuillerat e Sylvie Pouliquen, La pluie des mangues, En Mission Avec Eux, ottobre 2004, pag. 93-97

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