L’importanza dell’articolo 19

La Massoneria smascherata – Indice > L’ombra della massoneria sulle Assemblee di Dio in Italia (ADI) > Massoni e amici della Massoneria nei rapporti tra ADI e Governo Italiano > Frank Bruno Gigliotti, Charles Fama, Patrick J. Zaccara, e Francis J. Panetta, del Comitato per la Libertà Religiosa in Italia > Quello che ha fatto il massone Frank B. Gigliotti per le ADI > Fece scrivere gli articoli della Costituzione Italiana che assicurano la libertà religiosa >  L’importanza dell’articolo 19

Da quello che ha affermato lo stesso Frank Gigliotti, è stato lui a far scrivere l’articolo 19 della Costituzione Italiana. Nel libro The Fabulous Frank Gigliotti viene detto infatti che Gigliotti ‘scrisse gli articoli 17, 18 e 19 per la nuova Costituzione Italiana, i quali garantiscono la libertà di religione, di stampa e di parola’ (pag. 5).

 

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E questo articolo ha avuto un ruolo fondamentale nel prosieguo delle lotte delle ADI contro lo Stato Italiano per ottenere nel 1955 l’abrogazione della circolare Buffarini-Guidi che bandiva il culto dei Pentecostali, e quindi avere la strada spianata per ottenere nel 1959 il riconoscimento giuridico.

E difatti in un articolo dal titolo ‘Gli evangelici irpini negli anni di Scelba’ scritto dal professore Fiorenzo Iannino, dopo avere ricordato varie persecuzioni subite dagli Evangelici nell’Irpinia afferma: ‘Le ultime note risalgono al 1952, quando si segnalava al ministro che gli evangelici della “Assemblea di Dio in Italia” erano in gran parte simpatizzanti e militanti dei partiti estremisti. L’evento più significativo risale al 17 ottobre: con tre sentenze, il pretore di Castel Baronia assolse alcuni pentecostali per aver tenuto riunioni a scopo di culto. Le decisioni del magistrato smentirono clamorosamente e definitivamente le precedenti attività repressive: la famigerata circolare fascista del 1935 venne (giustamente) considerata in palese contrasto con l’articolo 19 della Costituzione repubblicana’ (http://www.ildialogo.org/Documenti/iannino.htm).

Anche Eugenio Stretti conferma ciò dicendo: ‘La Corte di Cassazione, nell’udienza del 30 Novembre 1953, rilevò l’illegalità della circolare Buffarini-Guidi alla luce degli articoli 17 e 19 della Costituzione’ ed ancora che nel dicembre 1954 ‘nel corso di una udienza con il Direttore generali degli affari di culto, le Assemblee di Dio appresero che il Ministero non riteneva più in vigore la famigerata circolare, ma che tuttavia non reputava necessario un provvedimento di revoca’ (Eugenio Stretti, Il Movimento Pentecostale: le Assemblee di Dio in Italia, Editrice Claudiana, Torino 1998, pag. 57). Provvedimento di revoca che arrivò però l’anno dopo e precisamente il 16 Aprile 1955.

Praticamente, con l’entrata in vigore dell’articolo 19 il 1° gennaio 1948 era cominciata la fine della Buffarini-Guidi, che sarebbe sopraggiunta nel 1955, e le autorità preposte dovevano già prendere atto che anche i Pentecostali erano liberi di professare la loro fede sul suolo italiano perchè il loro culto non aveva riti contrari al buon costume, e quindi che anche i Pentecostali avevano diritto al cosiddetto riconoscimento giuridico, a condizione che si organizzassero in conformità all’ordinamento giuridico italiano perchè affinchè una organizzazione confessionale ‘possa essere riconosciuta dallo Stato nella sua complessiva unità occorre che abbia manifestata la volontà di organizzarsi e si sia effettivamente organizzata quale corpo sociale’ (Florenzo Dentamaro, La politica dei culti acattolici 1929-1979, Firenze 1979, pag. 75). Quindi l’accettazione nel 1954 da parte del Consiglio di Stato del ricorso inoltrato dalle ADI contro il Ministero dell’Interno nel 1952, non fu altro che un provvedimento che il Consiglio di Stato fu ‘costretto’ a prendere a cagione dell’articolo 19 della Costituzione Italiana che di fatto faceva decadere la circolare Buffarini-Guidi emanata contro i Pentecostali.

E che con l’articolo 19 della Costituzione Italiana – ripeto, entrato in vigore il 1° gennaio 1948 – era cominciata una ‘nuova era’ anche per i Pentecostali, se ne avvidero subito anche le ADI stesse, che infatti nell’ottobre 1948 inoltrarono al Ministero dell’Interno domanda a norma di legge per ottenere il riconoscimento giuridico, domanda a cui il Ministero dell’Interno preferì non rispondere per una ragione molto evidente ritengo io: perchè era stato lo stesso Ministero dell’Interno ad emanare nel 1935 la circolare Buffarini-Guidi, che considerava ‘fuori legge’ i Pentecostali in quanto secondo il Ministero il culto dei Pentecostali ‘estrinseca e concreta in pratiche religiose contrarie all’ordine sociale e nocive all’integrità fisica e psichica della razza’, e quindi dato che l’articolo 1 sulla legge dei culti ammessi del 1929 diceva: ‘Sono ammessi nello Stato culti diversi dalla religione cattolica apostolica e romana, purché non professino principi e non seguano riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume’, il Ministero dell’Interno non poteva dare il suo consenso all’erezione a ente morale delle ADI fino a quando rimaneva ufficialmente in vigore la circolare Buffarini-Guidi. Vi domando: come avrebbe potuto riconoscere ufficialmente come ente morale un gruppo di persone che ufficialmente considerava che seguissero ‘pratiche religiose contrarie all’ordine sociale e nocive all’integrità fisica e psichica della razza’ e prerogativa fondamentale secondo la legge sui culti ammessi era che non professassero principi e non seguissero riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume? Quindi è evidente che per accettare la domanda di riconoscimento giuridico delle ADI, il Ministero dell’Interno aveva prima bisogno di revocare la Buffarini-Guidi, e quindi preferì rimanere in silenzio. E da lì allora scattò da parte delle ADI il ricorso al Consiglio di Stato contro il Ministero dell’Interno, che ripeto – a mio avviso – non poteva non essere accettato visto come si erano messe le cose con l’approvazione della Costituzione Italiana.

Peraltro, nello stesso Ricorso presentato dalle ADI, gli avvocati delle ADI fecero giustamente appello ai principii fondamentali della Costituzione Italiana e quindi alla libertà religiosa per tutti i cittadini (sancita come abbiamo visto dall’articolo 19) – dal punto di vista giuridico – affermando che ‘le giustificazioni date dalla pubblica Amministrazione degli innumerevoli arbitri da essa commessi, costituiscono soltanto lo schermo dietro il quale si nasconde la volontà dell’Amministrazione stessa di non osservare i precetti della legge e i principii fondamentali della nostra Costituzione e, se questa interpretazione dell’atteggiamento assunto dalla pubblica Amministrazione di fronte alla domanda della associazione ricorrente apparisse giustificata, – come dovrebbe apparire in base a quanto si è sopra esposto e dalla documentazione che sarà prodotta – non occorrerebbe aggiungere una sola parola per dimostrare il fondamento di questo motivo di ricorso, sotto il profilo della violazione di legge, nonché dell’eccesso di potere, nella forma dello sviamento. Viola la legge la pubblica amministrazione che non rispetta la libertà di religione dei cittadini e di chiunque, trovandosi nel territorio della Repubblica, ha diritto di godere di quel sommo bene che è la libertà. Incorre in eccesso di potere la pubblica amministrazione che, nell’esercizio delle proprie attribuzioni, si lascia dominare dallo spirito di intolleranza religiosa, sia esso determinato da un’errata concezione dei diritti della maggioranza o da una cieca incomprensione delle altrui credenze o, peggio, da ragioni di calcolo politico. …..’ (Ricorso delle «Assemblee di Dio in Italia» contro il Ministero dell’Interno – Direzione Generale dei Culti, pag. 15-16).

Anche il pastore ADI Rosario di Palermo, in occasione di una persecuzione ricevuta nel 1952, nel rispondere alle autorità fece appello all’articolo 19 della Costituzione. Ecco cosa leggiamo infatti in un articolo dal titolo ‘Rosario di Palermo’ scritto da Francesco Toppi ed apparso su Cristiani Oggi (2/1991): ‘Rosario Di Palermo fu tra i tanti particolarmente preso di mira nel 1952 per le sue iniziative evangelistiche nel palermitano. Il 20 febbraio 1952 a Corleone e il 22 dello stesso mese a Campofiorito era stato diffidato a non esercitare nessuna attività religiosa. Ecco come descrive i fatti in una lettera a Umberto Gorietti, all’epoca Presidente delle “Assemblee di Dio in Italia”:

‘Iddio sia lodato. Caro e amato fratello Umb. Nello Gorietti. Pace a voi tutti. Vengo a formulare la presente per comunicarvi gli eventi che si manifestano in questa provincia di Palermo. Giorno 20 a Corleone e il 22 c.m., a Campofiorito sono stato diffidato verbalmente dalle autorità di P.S. a non espletare alcuna funzione religiosa appartenente al culto pentecostale, perché ammoniti secondo la circolare del 2 giugno 1929 n. 1159 (come potrai vedere dall’acclusa diffida rilasciatami per iscritto, dalla S.C.C. (Campofiorito). A questa diffida io risposi: Le leggi che regolano l’ordine nell’Italia non sono quelle del 2 giugno 1929, bensì quelle della Costituzione della Repubblica, che con l’art. 19 ammette tutte le religioni e le riconosce ugualmente dinanzi allo Stato, se poi sono venute fuori delle disposizioni informateci ufficialmente e non verbalmente. A tale proposta mi fu risposto: noi siamo esecutori della legge e non emanatori, questo lo deve il Ministero che ha emanato a noi dispaccio di comunicarvi quanto vi stiamo comunicando. Io risposi: Fintantoché le Autorità non mi daranno per iscritto tale comunicazione continuerò a svolgere la mia attività regolarmente. Il giorno 25 c.m., mentre stavo per aprire il culto in Campofiorito vennero i carabinieri con il loro comandante e mi invitarono a sciogliere la riunione, io mi rifiutai ritornando sulla proposta fattagli, il comandante mi rispose che ciò non era di sua competenza, allora io mi mossi per ritornare al mio posto ed aprire il culto, ma lui mi fermò e m’invitò a seguirlo in caserma, ed io senza alcuna replica feci, mentre i carabinieri restarono a mettere fuori i fedeli che ivi erano adunati. Giunti in caserma cominciò a studiare la cosa e m’invitò a sospendere le riunioni e lui m’avrebbe dato il documento da me richiestogli, io risposi affermativamente e così mi rilasciò il foglio di diffida sottofirmato che alla presente vi allego. Cari fratelli io ho insistito affinché ottenni per iscritto la diffida, ma ora voi date la mia lettera all’Avv. Rosapepe affinché solleciti al Ministero il ritiro di tale circolare e che venga espressamente data comunicazione al questore di Palermo per continuare noi il compito davanti al Signore. In attesa di vostre sollecite notizie vi bacio in Gesù Cristo nostro Capo, vostro fratello in fede. R. Di Palermo’ (http://www.naiot.it/).

Ma affinchè comprendiate il meglio possibile l’importanza che ha avuto l’articolo 19 per le ADI (e ovviamente non solo per le ADI), vi sottopongo il commento fatto dall’avvocato delle ADI Giacomo Rosapepe ad una sentenza della Cassazione del 30 Novembre 1953 che non accolse il ricorso della Procura della Repubblica presso il Tribunale di S. Maria Capua Vetere, contro la sentenza di assoluzione del Pretore di Teano (Caserta) nei confronti dei Pentecostali. Le sue parole fanno parte di una lettera che scrisse a Umberto Gorietti, e sono molto importanti.

‘Caro Gorietti, «Nella travagliata vita del Movimento Pentecostale, ora denominato «Assemblee di Dio in Italia», la sentenza della Suprema Corte di Cassazione, del 30 novembre 1953, che qui di seguito si riporta nel testo integrale, rappresenta una tappa di eccezionale importanza.

E’ la prima volta che la massima Autorità Giudiziaria della Repubblica ha dovuto pronunciarsi in ordine alle seguenti questioni giuridiche, riferite ai pentecostali:

a) se la circolare del Ministero degli Interni in data 9 aprile 1935, n. 600/159, con la quale si ordinava lo scioglimento delle associazioni pentecostali, debba ritenersi legittima e se, in casi di inosservanza da parte dei pentecostali del contenuto della circolare stessa, essi possono incorrere in sanzioni penali;

b) se le norme sui culti acattolici contenute nella legge 24 giugno 1929, n. 1159 e nel R. D. 28 febbraio 1930, n. 289, siano compatibili con i nuovi principi affermati dalla Costituzione in materia di libertà religiosa, ovvero se le dette norme, in quelle parti in cui contrastano con i principi costituzionali avanti espressi, debbano essere ritenute tacitamente abrogate.

La Corte di Cassazione è stata molto esplicita nella risposta al primo quesito ed ha affermato che la detta circolare per essere rimasto un ordine puramente interno, di direttive ai Prefetti, senza pubblicità nei confronti dei cittadini, non può essere invocata a giustificazione della sanzione prevista dall’art. 650 C. P. Pertanto non possono gli aderenti al Movimento Pentecostale essere denunciati alla Autorità Giudiziaria in riferimento alla detta circolare e ciò perchè essi non violano un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragioni di giustizia, o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o di igiene.

Per quanto attiene alla seconda questione, abrogazione delle norme sui culti acattolici del 1929/30 a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione, la Corte di Cassazione, valutando gli elementi di fatto portati al suo esame e riguardanti le pratiche di culto dei pentecostali, ha affermato che le stesse non sono contrarie al buon costume e, pertanto, gli aderenti al movimento pentecostale (o Assemblee di Dio in Italia) hanno il diritto di riunirsi, senza dare alcun preavviso all’Autorità, in luogo aperto al pubblico ed in luogo privato, e questo diritto discende dal coordinato disposto degli artt. 17 e 19 della Costituzione.

Il primo infatti di detti articoli avente carattere precettivo, afferma che i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi, e per le riunioni anche in luogo aperto al pubblico non è richiesto preavviso; deve, invece, darsi il preavviso alle Autorità in occasione di riunioni in luogo pubblico (piazza, strada ecc.).

Questo articolo, per affermazione della Corte, si applica anche alle riunioni di culto in riferimento alla norma dello art. 19 sopra richiamato, di natura non solamente programmatico, e che solennemente dichiara che «tutti i cittadini hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma…. e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purchè non si tratti di riti contrari al buon costume».

La decisione appresso trascritta non mancherà di essere di guida preziosa per tutti coloro che dovranno interessarsi al problema della libertà religiosa in Italia. Avv. Giacomo Rosapepe’ (Risveglio Pentecostale, anno IX, Maggio 1954, pag. 3-4).

La sentenza della Corte di Cassazione a cui fa riferimento l’avvocato Rosapepe è la seguente:

‘REPUBBLICA ITALIANA – IN NOME DEL POPOLO ITALIANO la Corte Suprema di Cassazione, Sezione III Penale ha pronunciato la seguente SENTENZA:

Sul ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di S. Maria Capua Vetere, contro CONSOLI FIORAVANTI di Francesco ed altri, avverso la sentenza 23 gennaio 1953 del Pretore di Teano che li assolveva perchè il fatto non costituisce reato della contravvenzione di cui all’art. 650 codice penale.

Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso;

Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere applicato Rosso;

Udito il difensore avv.to Rosapepe che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. D’Errico, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Osserva in fatto:

In seguito a denunzia del comandante la stazione carabinieri di Riardo, Consoli Fioravanti, Occhicone Vito Antonio, Masiello Antonio, Di Nuzzo Alfredo, Jannucci Giovanni, Masiello Salvatore, Zappatella Nicolina, Massi Angela, tutti sorpresi nella casa rurale del terzo dei denunziati (Masiello Antonino) intenti al canto di inni religiosi di rito pentecostale, dopo la chiusura del tempio di tale setta adottata in via amministrativa il 10 ottobre precedente, venivano rinviati a giudizio dinanzi il Pretore di Teano per rispondere della contravvenzione di cui all’art. 650 cod. pen. per violazione della circolare del Ministero degli Interni in data 9 aprile 1935, n. 600, 159, diretta ai Prefetti, con la quale si ordinava lo scioglimento delle associazioni della setta, definita contraria all’ordine sociale.

Procedutosi al dibattimento, il Pretore di Teano con sentenza 16 febbraio 1953 proscioglieva tutti gli imputati dal reato loro ascritto perchè il fatto non costituiva reato. A sostegno della decisione rilevava il pretore non essere applicabile le sanzioni di cui all’art. 650 cod. pen. per la violazione di detta circolare del Ministero degli Interni, poichè questa non rientrerebbe fra i provvedimenti emessi per ragioni di ordine pubblico, giustizia, sicurezza pubblica e igiene, alla cui violazione soltanto si riferirebbero le sanzioni comminate dall’articolo comunque citato, e perchè alla circolare non era stata data alcuna forma di pubblicità nei confronti della generalità dei cittadini, trattandosi di provvedimento di carattere amministrativo interno, di direttive agli uffici dipendenti. Aggiungeva, poi, il pretore che il fatto accertato non poteva considerarsi sanzionato penalmente neanche sotto altri riflessi, in quanto era risultato trattarsi di riunione di nove persone in un’abitazione privata. Concludeva quindi il Pretore che neppure erano applicabili le sanzioni di cui all’art. 18 L.P.S., che richiede il preavviso all’autorità di P. S. per determinate riunioni, anche perchè tale articolo era stato modificato per effetto dell’art. 17 della Costituzione, norma precettiva di immediata applicazione, che limitava tale obbligo di preavviso alle riunioni in luogo pubblico.

Contro tale sentenza di proscioglimento ricorreva per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di S. Maria Capua Vetere. Il ricorrente non disconosceva l’esattezza delle affermazioni del Pretore di Teano, nel senso che la circolare del 1935 del Ministro degli Interni del tempo, non costituisca provvedimento, la cui violazione sia punita ai sensi dell’art. 650 cod. pen. Assumeva, però, che il Pretore non aveva tenuto presente che gli imputati avevano continuato a esercitare il culto pentecostale senza autorizzazione, e anzi dopo che era intervenuta la chiusura del tempio già esistente in Riardo, con conseguente diffida da parte dei carabinieri.

Esercizio siffatto costituiva, secondo il ricorrente, violazione dell’art. 2 del decreto legge 28 febbraio 1930, n. 289, e dei susseguenti provvedimenti di chiusura del tempio e di diffida, e a dette violazioni era applicabile la sanzione del surriferito art. 650. codice penale.

Osserva in diritto:

Come si è precisato nella parte enunciativa, il Pubblico Ministero ricorrente non si duole che sia stata dal Pretore esclusa l’applicabilità della sanzione di cui all’art. 650 codice penale in relazione alla circolare del Ministero degli Interni del 9 aprile 1935, n. 600/158, con la quale circolare, diretta ai Prefetti del Regno, si ordinava lo scioglimento dell’associazione religiosa dei Pentecostali e la chiusura dei relativi templi ed oratori per l’affermato motivo che il culto da essi professato «si estrinseca e concreta in pratiche religiose contrarie all’ordine sociale e nocive alla integrità fisica e psichica della razza».

A tale uopo, basta brevemente osservare che, a prescindere da una qualsiasi indagine sulla legittimità di tale circolare in relazione all’organo emanante (Ministero dell’Interno) e sulla natura delle ragioni che la giustificano in relazione a quelle considerate dall’art. 650 cod. pen., mai per la sua violazione, quest’ultima norma sarebbe applicabile. Tale provvedimento, in conformità del resto alla natura degli altri provvedimenti del genere (circolari), è rimasto un ordine puramente interno, di direttiva agli organi dipendenti, senza qualsiasi pubblicità nei confronti dei cittadini, i quali, come questo Collegio costantemente ha deciso, non potevano pertanto incorrere in sanzioni penali in caso di inosservanza.

Ciò premesso, va considerato che il P. M. ricorrente si duole invece della mancata applicazione da parte del Pretore di Teano della sanzione dell’art. 650 cod. pen., in relazione ed altri divieti, e precisamente a quello generale dell’art. 2 del r.d.l. 28 febbraio 1930, n. 289, che assoggetta ad autorizzazione ministeriale i luoghi di esercizio dei culti non cattolici, e a quello specifico relativo alla precedente chiusura, da parte dei carabinieri in data 16 ottobre 1952, del preesistente tempio pentecostale di Riardo, dove in precedenza pubblicamente si riunivano quei fedeli, e alla conseguente diffida della stessa autorità.

Sul primo punto, la difesa degli imputati espressamente risolleva, con apposita memoria, la questione giuridica se le surriferite norme del citato r.d.l. del 1930 siano compatibili con i nuovi principii affermati dalla Costituzione sulla piena libertà di culto, ovvero siano stati abrogati immediatamente, per effetto dei su riferiti nuovi principii costituzionali (in particolare art. 8 e 19).

La questione è stata già risolta nel primo senso da questa Sezione con la sentenza 7 maggio 1953 n. 1522 P.M. c. Somamni, e nessun nuovo argomento a favore della contraria tesi è stato apportato in questo giudizio che determini una diversa decisione. D’altra parte, un approfondito riesame della questione stessa, è superfluo per il rilievo assorbente che comunque in relazione a detto art. 2 del r.d.l. del 1930 mai sarebbe applicabile nel caso in ispecie la sanzione di cui all’art. 650 cod. pen.

E’ pacifica eccezione dottrinale e giurisprudenziale che nei provvedimenti la cui violazione è sanzionata ai sensi dell’art. 650 cod. pen. non rientrano quelli di carattere legislativo o regolamentare, eccetto che in essi l’art. 650 predetto sia espressamente richiamato quoad poenam, in caso diverso, se eventualmente un precetto o un divieto, formulato in una legge o in un regolamento, non fosse sanzionato, dovrebbe rispettarsi il principio generale per cui siffatto precetto non importa sanzione.

Peraltro, per quanto si riferisce al divieto contenuto nell’art. 2 del r.d.l. del 1930, non sarebbe esatto ritenere che nella norma manchi la sanzione alla sua violazione. E’ duopo considerare che il legislatore dopo avere, nella prima parte dell’articolo in esame, riconosciuto la piena libertà delle cerimonie religiose di culti diversi dal cattolico se celebrate in luogo autorizzato al culto, alla presenza di ministro pure autorizzato, nell’ultima parte dello stesso articolo aggiunge: in caso diverso si applicano le norme per le riunioni pubbliche. E’ inequivocabile pertanto il pensiero del legislatore, quanto chiara ne è la lettera della legge, nel senso che, per effetto della norma predetta, in caso di riunioni religiose in luogo non autorizzato si applica il sistema disposto per le riunioni pubbliche secondo le norme vigenti (art. 18 L.P.S.) con le conseguenti sanzioni in caso di inosservanza (pure art. 18 citato). Il richiamo a questo ultimo articolo era peraltro quod substantiam e non quoad poenam, sicchè anche per le riunioni religiose in luoghi non autorizzati doveva caso per caso accertarsi un carattere di pubblicità che richiedesse preventivo avviso. Sotto questo riflesso, può attualmente riconoscersi la sostanziale esattezza di quanto ha affermato il Pretore con la sentenza impugnata, rilevando che l’art. 18 L.P.S., il quale richiedeva il preavviso per riunioni in luogo sia pubblico che aperto al pubblico, ha subito radicale modifica per effetto dell’art. 17 della Costituzione, del quale questo Collegio ha con numerose sentenze riconosciuto la natura di norma precettiva di immediata applicazione. Infatti l’art. 17 della Costituzione ha sancito la necessità del preavviso solo per le riunioni in luogo pubblico, prescindendone per quelle in luogo aperto al pubblico.

Devesi, però, aggiungere che la libertà di riunione senza preavviso, ora più ampiamente riconosciuta dalla Costituzione, deve coordinarsi non soltanto con i limiti posti dal primo comma del citato articolo, e cioè che la riunione si svolga «pacificamente e senz’armi» (come questo Collegio non ha mancato di precisare colla sentenza Sezioni Unite 31 marzo 1951, n. 8, Guardigli), ma anche per quanto si riferisce alla materia religiosa, con la norma del successivo art. 19, che subordina la libertà dell’esercizio del culto, anche se in privato, alla condizione che non si tratti di atti contrari al buon costume. Nella specie, però, è da considerarsi che, se pur il Pubblico Ministero ricorrente accenna a particolari pratiche del rito dei Pentecostali che sarebbero contrarie al buon costume (ad es. baci tra i fedeli a l’inizio ed alla fine della cerimonia), tuttavia nè dalla sentenza impugnata nè dal verbale di sopraluogo dei carabinieri, i quali sorpresero nove persone intente al canto di inni, risulta che si compissero pratiche del genere.

In relazione alle precise modalità di fatto accertate dal Pretore anche circa la natura privata del luogo dove gli imputati si riunivano e alle pratiche ivi svolte, la esclusione di qualsiasi reato da parte del Pretore di Teano, nella fattispecie decisa, non merita alcuna censura.

Neanche, infatti, sempre in relazione a tali modalità accertate, potevasi riscontrare una violazione dell’art. 650 cod. pen. con riferimento ai precedenti provvedimenti amministrativi di chiusura del tempio pentecostale di Riardo.

A prescindere dall’indagine sulla legalità dei provvedimenti stessi e dalle sanzioni applicabili in caso di loro violazione, non è contestato che l’ordine di chiusura e così la conseguente diffida si riferissero all’esercizio del culto in quel tempio e, pertanto, nessuna influenza potevano avere per l’esercizio in privato del culto in diversa località (casa di rurale abitazione).

Per questi motivi, la Corte di Cassazione, letti ed applicati gli artt. 525 e seguenti codice procedura penale, rigetta il ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di S. Maria Capua Vetere contro la sentenza 23 gennaio 1953 del Pretore di Teano.

Così deciso in Roma 30 novembre 1953′ (Risveglio Pentecostale, anno IX, Maggio 1954, pag. 4-7)

Ma proseguiamo. L’avvocato delle ADI Giacomo Rosapepe, nel suo libro Inquisizione addomesticata, parla di una assoluzione ricevuta dal pastore valdese Franco Sommani che era stato denunciato dal commissario di P.S. di Avola per avere aperto al pubblico un luogo di culto valdese, assoluzione contro cui ricorse il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Siracusa, ma il cui ricorso fu rigettato dalla Cassazione anche qui basando la sua sentenza sull’articolo 19 della Costituzione. Ecco le parole del Rosapepe:

‘Nelle leggi del 1929-30 non c’è la sanzione penale? Ebbene il commissario di P.S. di Avola la crea e nell’aprile del 1951 denuncia al Pretore di Avola il pastore valdese Franco Sommani, per rispondere della contravvenzione prevista e punita dalla legge 24 giugno 1929, n. 1159 in relazione all’art. 1 del R.D. 28 febbraio 1930, per aver aperto al pubblico un tempio di rito evangelico valdese.

L’art. 1 del R.D. del 1930 per la verità non prevede alcuna contravvenzione e riesce veramente difficile capacitarsi della disinvoltura giuridica in virtù della quale quel funzionario presunse di poter imbastire una simile imputazione. Comunque il Pretore di Avola, avv. Giovannino Caldarella (un Pretore onorario) parò il colpo. In punto di diritto, nella sua sentenza, l’avv. Caldarella esaminò il contenuto dell’art. 19 della Costituzione nella sua lettera e nel suo spirito. In proposito egli scrive:

L’art. 19 della Costituzione italiana promulgata e pubblicata il 27 dicembre 1947, è norma precettiva di immediata applicazione (non soltanto programmatica) e quindi a chiunque è dato di poter professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, anche associata, e di farne propaganda con facoltà di esercizio, in privato e in pubblico, del culto. A questa affermazione perviene il decidente sia per la chiara dizione della norma sia per i princìpi informatori della norma stessa. I deputati dell’Assemblea costituente si erano preoccupati di porre in essere, sul piano del diritto, le espressioni politiche da essi usate dai balconi quando chiedevano al popolo il mandato parlamentare: conseguentemente cercavano di far passare sul piano della attuazione quei princìpi astratti professati e sbandierati. Uno di questi è quello della libertà intesa come estrinsecamente naturale della personalità umana sul piano pratico dell’attuazione, e non come principio filosofico-politico professato in astratto.

Da tale principio è permeata la Costituzione, la quale, come regina delle leggi, impone alle altre il rispetto delle proprie norme, intese non soltanto come programmazione di princìpi, ma come concreti precetti per una immediata applicazione pratica: invero sarebbe assurdo che possa trovare applicazione, nell’attuale ordinamento giuridico, la norma contenuta nelle leggi del 1929 e del 1930, citate in epigrafe, quando essa è in contrasto con quella di cui all’art. 19 (nonchè con quella dell’art. 8) della Costituzione; e ciò anche in armonia coll’art. 15 delle preleggi. E l’incompatibilità (o anche il contrasto) risalta dal principio informatore della Costituzione sulla libertà, che non era affatto lo stesso principio che ebbe ad informare i Patti lateranensi nonchè le leggi citate.

In base a tale premessa il Pretore di Avola mandò assolto il Sommani. Anche in questo caso, però, l’assoluzione, troppo completa sul piano logico, giuridico e costituzionale e quindi in grado di far sentire i suoi effetti sull’intero complesso problema dell’apertura di templi non cattolici, non veniva condivisa dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Siracusa. Questi ricorreva in Cassazione contro l’ardimentoso avvocato Caldarella, sostenendo che egli era caduto in errore nell’affermare l’incompatibilità delle leggi del 1929-1930 con i princìpi espressi negli articoli 8 e 19 della Costituzione. La terza sezione della Corte di Cassazione, che esaminò il ricorso, per la prima volta scrisse in sentenza che le norme di cui agli articoli 8 e 19 della Costituzione «senza dubbio non appartengono alla categoria delle norme semplicemente direttive». La Corte evitò accuratamente però di dichiarare l’incompatibilità di queste norme con le leggi sui culti non cattolici del defunto regime; e, dovendo pur trovare una dignitosa via d’uscita all’intricata questione, ripiegò sull’inesistenza della sanzione penale nell’art. 1 del decreto del 1930, e rigettò il ricorso della Procura di Siracusa. Ma, prima di giungere a questo, la Cassazione aggirò l’ostacolo mutando la fisionomia giuridica dell’episodio. Nel caso si trattava di una riunione religiosa, prevista e garantita dall’art. 19 della Costituzione, che afferma il diritto per tutti di «professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, ecc.»’ (Giacomo Rosapepe, Inquisizione addomesticata, Editori Laterza, Bari 1960, pag. 113-115).

La svolta storica dunque per le Chiese ADI fu costituita dall’articolo 19 (assieme all’art. 17 e 18 ovviamente), e certamente non dall’accettazione del ricorso da parte del Consiglio di Stato. Ma le ADI astutamente fanno apparire le cose in maniera diversa, quasi che la libertà religiosa a cui esse anelavano venne con l’accettazione del loro ricorso, quando in effetti essa venne il 1° gennaio 1948 con l’entrata in vigore della Costituzione Italiana. E poi supponiamo che il Ministero dell’Interno avesse accettato subito la loro richiesta di riconoscimento giuridico ai sensi dell’articolo 2 della legge sui culti ammessi del 1929: che cosa avrebbero dovuto dire le ADI già nel 1948? Che finalmente dopo tanti anni di persecuzioni, essi grazie all’articolo 19 della Costituzione, che sanciva la libertà religiosa per tutti, avevano potuto ottenere immediatamente il riconoscimento giuridico. Quindi, lo ripeto, la svolta fu l’articolo 19 della Costituzione Italiana; e la Buffarini-Guidi a partire dal 1 Gennaio 1948 costituì semplicemente un intoppo ‘burocratico’ e un pretesto per alcuni per continuare a perseguitare i Pentecostali: tutto qua. Niente di che stupirsi.

Ma chi fece scrivere l’articolo 19 – che sanciva la libertà religiosa – a cui si appellarono gli avvocati delle ADI nel loro ricorso contro il Ministero dell’Interno nel 1952? Il massone Frank Gigliotti e i suoi fratelli massoni, che fecero pressione sul governo De Gasperi. Ovviamente con il placet di Pio XII che seguì con molto interesse i lavori della Costituente, e che alcuni mesi prima che la Costituzione fosse promulgata si era incontrato con Henry H. Ness, il rappresentante delle Assemblee di Dio.

Frank B. Gigliotti dunque ha contribuito non poco a far conseguire la libertà religiosa ai Pentecostali in Italia. In questo annuncio apparso sul San Diego Union del dicembre 1950, di Gigliotti viene detto infatti che ha dato un forte contributo nel liberare i Pentecostali e non solo loro ma anche i Battisti, i Presbiteriani ed altri gruppi in Italia.

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