La penitenza (o confessione)

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La dottrina dei teologi papisti

Mediante la penitenza vengono rimessi dal prete, che ne è il ministro, i peccati mortali commessi dopo il battesimo perché il prete ha ricevuto da Cristo il potere di rimettere i peccati. Questo sacramento è assolutamente necessario alla salvezza. Chi commette i peccati mortali e non si confessa va all’inferno. La confessione va fatta almeno una volta all’anno; e tra le altre cose vanno specificati al prete le specie e le circostanze dei peccati mortali. Il penitente però dopo avere ricevuto l’assoluzione deve fare delle opere di penitenza per ottenere piena assoluzione dei suoi misfatti. Ed inoltre egli deve lucrare le indulgenze per ottenere la remissione della pena temporanea dovuta per i suoi misfatti.

La Penitenza o Confessione è il Sacramento istituito da Gesù Cristo per rimettere i peccati commessi dopo il Battesimo’.[1] Per ciò che concerne il tempo nel quale la penitenza fu istituita da Cristo, il Perardi, sempre nel suo catechismo, afferma: ‘Il Sacramento della Penitenza fu istituito da Gesù Cristo quando disse agli Apostoli, e in essi ai loro successori: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno loro rimessi e saranno ritenuti a chi li riterrete’.[2] Oltre a queste parole di Gesù i teologi papisti prendono altri passi della Scrittura per confermare la penitenza; quello che dice che Dio aveva posto la parola della riconciliazione in Paolo e negli altri apostoli che erano con lui,[3] quello che dice che le turbe andavano da Giovanni ed erano battezzate nel fiume Giordano confessando i loro peccati,[4] quello che dice che ad Efeso molti di coloro che avevano creduto venivano a confessare e a dichiarare le cose che avevano fatte,[5] quello che dice di confessare i falli gli uni agli altri,[6] e le parole che Gesù pronunciò dopo avere risuscitato Lazzaro: “Scioglietelo, e lasciatelo andare”.[7]

La ragione per cui questo sacramento è chiamato penitenza è ‘perché per ottenere il perdono dei peccati è necessario pentir­sene e fare la penitenza che ingiunge il confessore’;[8] è chiamato confessione invece ‘perché è necessario confessare al sacerdote tutti i propri peccati mortali’.[9] E’ bene tenere presente che, secondo la teologia romana, la peni­tenza concerne soprattutto la confessione dei cosiddetti peccati mortali, perché per quelli cosiddetti veniali i Cattolici possono essere assolti anche senza di essa; e che l’assoluzione, ossia ‘la sentenza con cui il sacerdote, in nome di Gesù Cristo, rimet­te i peccati al penitente (dicendo: Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia) è considerato un vero atto giuridico pronunziato da un giudice con il quale il peccatore viene assolto. E per chi non lo reputa tale c’è questo anatema tridentino: ‘Se qualcuno dirà che l’assoluzione sacramentale del sacerdote non è un atto giudiziario (…) sia anatema’.[10]

Secondo quello che insegna il catechismo cattolico i Cattolici devono andare dal prete a fare la confessione dei loro peccati per averne l’assoluzione almeno una volta all’anno. Questo lo devono fare in base al seguente decreto del concilio Laterano IV del 1215: ‘Qualsiasi fedele dell’uno o dell’altro sesso, giunto all’età di ragione, confessi fedelmente, da solo, tutti i suoi peccati, al proprio parroco almeno una volta l’anno…’.[11] E dato che abbiamo menzionato questo concilio, ricordiamo che fu proprio questo concilio ad introdurre il dogma della penitenza obbligatoria da farsi al prete nella chiesa romana; prima di quell’anno infatti, essa non era reputata obbligatoria.[12]

Il catechismo romano afferma che: ‘Per fare una buona confessione si richiedono cinque cose: 1) l’esame di coscienza; 2) il dolore dei peccati; 3) il proponimen­to di non commetterne più: 4) la confessione; 5) la soddisfazione o penitenza’.[13] Voglio ora soffermarmi brevemente su questi ultimi due aspetti di questo sacramento. Secondo la teologia romana chi va a confessarsi dal prete deve manifestare al sacerdote la specie dei peccati, il loro numero e le circostanze su ogni peccato commesso, infatti il concilio di Trento a tale proposito decretò: ‘E’ chiaro infatti, che i sacer­doti non avrebbero potuto esercitare questo giudizio senza cono­scere la causa né imporre le penitenze con equità, se i penitenti avessero dichiarato i loro peccati solo genericamente, e non invece, nella loro specie ed uno per uno. Si conclude da ciò che è necessario che i penitenti manifestino nella confessione tutti i peccati mortali, di cui hanno consapevolezza dopo un diligente esame di coscienza, anche se essi sono del tutto nascosti e sono stati commessi soltanto contro i due ultimi comandamenti del Decalogo (…) Si deduce, inoltre, che nella confessione debbano manifestarsi anche quelle circostanze che mutano la specie del peccato; senza di esse, infatti, né il penitente espone completamente gli stessi peccati, né questi potrebbero venire conosciuti dai giudici e sarebbe impossibile ad essi percepire esattamente la gravità delle colpe ed imporre per essa ai penitenti la pena dovuta’.[14] Il Perardi nel suo manuale conferma ciò dicendo: ‘Dobbiamo accusare i peccati mortali pienamente, senza farci vincere da una falsa vergogna a tacerne alcuno, dichiarandone la specie, il numero e anche le circostanze che aggiunsero una nuova grave malizia’.[15]

Per quanto riguarda la specie, i Cattolici devono confessare di che genere è il peccato; se è un furto, una percossa, una menzo­gna ecc. Per quanto riguarda il numero essi sono obbligati a confessarli tutti, senza celarne alcuno; per esempio se saltano la messa per tre volte devono dire di non essere andati a messa per tre volte ecc. Se nascondessero un solo peccato essi commetterebbero un sacrilegio e non farebbero una buona confessione! Per quanto riguarda infine le circostanze, secondo quello che scrisse Tommaso d’Aquino (un dottore della chiesa romana) sono queste: Chi, Che cosa, Dove, Con quali aiuti, Perché, Come, Quando. Per spiegarle ci serviremo d’un esempio. Un uomo che si é reso colpevole di un furto e va a confessarlo al prete deve specificargli le seguenti cose affinché il prete sappia ben giudicare e dare la sentenza.

1) Chi ha commesso il furto: se ricco, o povero; se padre di fami­glia, o figlio; se secolare o prete.

2) Che cosa ha rubato: se denaro, e quanto; o oggetti da vestire, o viveri, o oggetti sacri, come calici ecc..

3) Dove ha commesso il furto: se in campagna, in città o in altro luogo.

4) Con quali aiuti: se ha avuto compagni, se ha scalato muri..

5) Perché ha rubato: se spinto dalla necessità, o per vendetta, o per altro qualsiasi motivo, come per esempio, per andare a diver­tirsi.

6) Come: se ha fatto violenza, o se si è introdotto di nascosto, e non sia stato veduto da nessuno.

7) Quando ha commesso il furto: se di giorno o di notte, ecc.

Quindi i teologi papisti insegnano ai Cattolici romani non solo che il prete ha il potere di assolverli, ma anche che per essere assolti devono confessargli la specie, il numero e le circostanze dei peccati.

Dopo che il Cattolico confessa al prete tutti questi particolari sui suoi peccati mortali il catechismo romano dice che il prete prima gli dà l’assolu­zione dei peccati e poi gli dà la soddi­sfazione o penitenza sacramentale che ‘è l’opera buona imposta dal confessore a castigo e a correzione del peccato, e a sconto della pena temporanea meritata peccando’.[16] Perché questo? Perché ‘il Sacramento della Penitenza, applicando all’anima i meriti di Gesù Cristo, rimette la pena eterna, ma ne lascia ordinariamente una temporanea da scontare o in questa vita o nell’altra. Dio vuole che diamo anche noi una soddisfazione; non è giusto che Gesù Cristo solo debba espiare tutta la pena dei peccati del cristiano’.[17] Ma anche dopo avere fatto la penitenza sacramentale, che Perardi dice che se il prete non ha fissato quando farla, è da preferirsi fare ‘prima di uscire di chiesa o almeno il più presto che pote­te’,[18] rimane ancora qualcosa da fare per espiare la pena difatti Perardi dice: ‘La penitenza sacramentale non basta, d’ordinario, a liberarci da tutta la pena temporanea meritata col peccato, e perciò conviene supplire con altre opere di penitenza e di pietà e con indulgenze’.[19] In sostanza, secondo questa dottrina sulla soddisfazio­ne, i peccati l’uomo li può espiare in parte affidandosi ai meriti di Cristo ed in parte compiendo appunto queste opere. Quindi ai Cattolici vengono insegnate diverse cose a riguar­do dei peccati che commettono; la prima é che andandosi a confes­sare dal prete questi glieli rimetta con l’autorità divina, la seconda è che siccome la penitenza rimette la pena eterna ma ne lascia una temporanea da dover scontare – perché per ottenere subito la remissione di tutta la pena meritata per il peccato occorrerebbe una contrizione perfettissima – si deve dare a Dio la soddisfazione della pena temporanea. Questa si compie prima con la penitenza sacramentale, e poi con le opere di penitenza e di pietà, che secondo il Nuovo Manuale del Catechista sono: ‘I digiuni, le mortificazioni, gli atti di misericordia spirituale e corpora­le, le preghiere, e l’uso pio di quelle cose benedette e di quelle cerimonie sacre che si chiamano sacramentali, come l’acqua santa e le varie benedizioni’.[20] E anche per chi rigetta le opere di penitenza il concilio Tridentino ha lanciato l’ennesimo anate­ma: ‘Se qualcuno dirà che le soddisfazioni, con cui i penitenti per mezzo di Gesù Cristo cercano di riparare i peccati, non sono culto di Dio, ma tradizioni umane, che oscurano la dottrina della grazia e il vero culto di Dio e lo stesso beneficio della morte del Signore, sia anatema’.[21]

Ma alle opere di penitenza e di pietà, come abbiamo visto prima, vi si devono aggiungere pure le indulgenze. Che cosa è l’indulgenza? ‘E’ una remissione di pena temporanea dovuta per i peccati; che la Chiesa concede sotto certe condizioni a chi è in grazia, (appli­candogli i meriti e le soddisfazioni sovrabbondanti di Gesù Cristo, della Madonna e dei Santi, le quali costituiscono il tesoro della Chiesa’).[22] Essa può essere plenaria quando per mezzo di essa è rimessa tutta la pena temporanea dovuta per i peccati; parziale quando è solo una remissione parziale della suddetta pena. Ma perché la curia romana ha introdotto la pratica delle indul­genze? La ragione è questa: spiegata in questi termini: ‘Il fine che l’Autorità ecclesiastica si propone nella elargizione delle indulgenze, è non solo di aiutare i fedeli a scontare le pene del peccato, ma anche di spingere gli stessi a compiere opere di pietà, di penitenza e di carità, specialmente quelle che giovano all’incremento della fede e al bene comune’.[23] Ed anche per coloro che non accettano le indulgenze c’è il relativo anatema tridentino che è il seguente: ‘La potestà di elargire indulgenze è stata concessa alla chiesa da Cristo ed essa ha usato di questo potere, ad essa divinamente concesso, fin dai tempi più antichi. Per questo il santo sinodo insegna e comanda di mantenere nella chiesa quest’uso, utilissimo al popolo cristiano e approvato dall’autorità dei sacri concili e colpisce di anatema quelli che asseriscono che esse sono inutili o che la chiesa non ha potere di concederle’.[24]

Ora, le indulgenze possono essere acquistate dai Cattolici facen­do delle opere; vediamo ora quali sono alcune di queste opere di fatica che fanno lucrare l’indulgenza plenaria della chie­sa, tenendo presente che secondo la norma sei della Costituzione Apostolica Indulgentiarum Doctrina l’indulgenza plenaria si può acquistare una sola volta al giorno.

– L’adorazione del SS.mo Sacramento per almeno mezz’ora;

–  la pia lettura della S. Scrittura per almeno mezzora;

–  il pio esercizio della Via Crucis;[25]

–  la recita del Rosario mariano in chiesa o pubblico oratorio, oppure in famiglia, in una Comunità religiosa, in una pia Asso­ciazione.[26]

Tra le indulgenze plenarie c’è anche quella chiamata Giubileo.

L’indulgenza parziale invece la può lucrare:

– chi recita la giaculatoria ‘Gesù, Giuseppe e Maria, vi dono ecc..’;

–  chi recita l’Angelus Domini, le Litanie, la Salve, Regina;[27]

–  il fedele che devotamente usa un oggetto di pietà (crocifisso, croce, corona, scapolare, medaglia), benedetto da un sacerdote qualsiasi.[28]

Ci sono altre opere o cerimonie sacramentali mediante le quali i Cattolici possono acquistare sia indulgenze plenarie che indul­genze parziali, ma mi fermo qui con le indulgenze.[29]

A questo punto ci si domanderà: ‘Ma il Cattolico allora dopo essersi confessato in maniera regolare, e fatto le opere di penitenza per espiare i suoi peccati, e dopo avere acquistato l’indulgenza plenaria, è sicuro di andare in paradiso?’ In teoria sì, dovrebbe esserne perfettamente sicuro, ma nella pratica non lo è, e non può esserlo affatto, perché dice Perardi: ‘Potremmo sperare di trovarci, in punto di morte, così puri, così santi da meritare subito il Paradiso?’[30]

D’altronde – dicono loro – nessuno è perfetto, qualche imperfezione ce l’hanno tutti, qualche peccato veniale lo si contrae anche dopo avere acquistato l’indulgenza plenaria, e perciò, chi può dire di andare subito in paradiso! Quindi, prima di andare in paradiso bisogna andare a sostare per qualche tempo in purgatorio per purgarsi del residuo di colpa che rimane, mediante delle pene molto severe; allora e solo allora si potrà andare in paradiso, perché si sarà santi e puri. Nessuno dunque si permetta di dire che quando morirà andrà subito in cielo perché questa è presunzione che offende la giustizia di Dio!

Per quanto riguarda la necessità di questo sacramento, secondo la teologia romana, esso è indispensabile per ottenere la salvezza, nella stessa maniera in cui è indispensabile il battesimo per essere rigenerati: ‘Il sacramento della Penitenza è assolutamente necessario alla salvezza per tutti coloro che hanno peccato gravemente dopo il Battesimo. – E’ di fede’.[31] Ciò significa che se per esempio un Cattolico muore senz’avere confessato i suoi cosiddetti peccati mortali al prete, viene dichiarato essere andato all’inferno.

Per la chiesa romana quindi la confessione è un sacramento molto importante e per coloro che non l’accettano c’è il seguente anatema del concilio di Trento: ‘Se qualcuno dirà che nella chiesa cattolica la penitenza non è un vero e proprio sacramento istituito dal signore nostro Gesù Cristo, per riconciliare i fedeli con Dio, ogni volta che cadono nei peccati dopo il batte­simo, sia anatema’.[32]

 


[1] Giuseppe Perardi, op. cit., pag. 518

[2] Ibid., pag. 518

[3] Cfr. 2 Cor. 5:19

[4] Cfr. Mar. 1:5

[5] Cfr. Atti 19:18

[6] Cfr. Giac. 5:16

[7] Giov. 11:44

[8] Giuseppe Perardi, op. cit., pag. 518

[9] Ibid., pag. 518

[10] Concilio di Trento, Sess. XIV, can. 9

[11] Concilio Laterano IV, Cost. XXI

[12] Tenendo presente che in quel tempo Innocenzo III (1198-1216) perseguitava a morte gli Albigesi, i Valdesi e i Catari, ed aveva ordinato di denunciarli sotto pena di scomunica, non sorprende un gran che se egli abbia pensato di rendere la confessione al prete obbligatoria. Perché in questa maniera egli poteva venire a sapere chi erano e dove abitavano coloro che dissentivano dalla chiesa cattolica per poterli sterminare. E che questa sia la ragione che spinse a rendere obbligatoria una cosa che fino a quel tempo era stata facoltativa ce lo dice il seguente fatto. Il concilio di Tolosa nel 1229 estese il precetto di Innocenzo III, ordinando che la confessione fosse fatta tre volte all’anno, dicendo che emanava quel decreto per potere più efficacemente distruggere l’eresia e che dichiarava sospetti d’eresia coloro che non si sarebbero confessati tre volte all’anno.
Per quanto riguarda la storia della confessione auricolare da farsi al prete eccola per sommi capi. Durante i primi secoli, nella Chiesa si cominciò a prescrivere che colui che fosse caduto in qualcuno dei peccati per i quali la Chiesa aveva stabilita una penitenza in segno di ravvedimento, confessasse il suo peccato nella raunanza e venisse poi sottoposto alla penitenza canonica. In altre parole inizialmente la confessione per alcuni peccati avveniva pubblicamente e dopo di essa il vescovo assegnava al penitente la penitenza prescritta dai canoni sinodali che variava a secondo del peccato commesso; e dopo che il penitente era passato per tutti i gradi della sua punizione (che poteva durare anche molti anni) veniva riconciliato con la Chiesa e ammesso alla cena del Signore. La riconciliazione avveniva mediante l’imposizione delle mani del vescovo sul penitente e la preghiera del vescovo a pro di lui affinché Dio accettasse la sua penitenza e lo restituisse alla Chiesa. Questa cerimonia non consisteva in un’assoluzione del penitente perché si riteneva che questi potesse essere assolto solo da Dio, solo lui infatti aveva il potere di perdonare i peccati; in altre parole il vescovo non assolveva il penitente come oggi si sa il prete fa nella confessione ma solo intercedeva presso Dio per lui. Ma col passare del tempo sviluppandosi la dottrina del potere delle chiavi questa intercessione diventerà assoluzione per cui verrà attribuito al vescovo il potere di riconciliare il penitente con Dio oltre che con la Chiesa. Come abbiamo detto innanzi la confessione era pubblica. Come dunque avvenne che da pubblica essa divenne privata? In questa maniera. Quando nella seconda metà del terzo secolo sorse la questione dei lapsi, ossia di coloro che erano caduti nell’idolatria durante la persecuzione che c’era stata sotto l’imperatore Decio, i quali chiedevano di essere riammessi alla comunione e la Chiesa accettò di riammetterli dopo che avessero fatto anche loro confessione pubblica del loro peccato, allora il numero dei penitenti divenne così grande che il culto doveva dilungarsi per molto tempo. I vescovi allora fecero in quell’occasione un canone nel quale ordinarono che si scegliesse fra gli anziani un uomo savio che ascoltasse le confessioni dei penitenti ed imponesse loro la penitenza stabilita dai canoni a secondo il peccato. Questo anziano fu chiamato penitenziere. Ecco dunque quali furono le circostanze in cui si ebbe il principio della confessione auricolare privata ad un uomo. Alla fine del quarto secolo però questa confessione venne abolita. Il motivo ce lo dice lo storico Socrate: ‘Nello stesso tempo (anno 383) piacque abolire i preti delle chiese, che presiedevano alla penitenza, e ciò per la seguente ragione. Dopochè i Novaziani si erano separati dalla Chiesa per non volere comunicare con quelli che nella persecuzione di Decio, avevano apostatato, da quel tempo i vescovi aggiunsero all’albo ecclesiastico un prete penitenziere; affinché coloro che avevano peccato dopo il battesimo, confessassero i loro peccati innanzi al prete a ciò stabilito. La quale istituzione anche ora si mantiene presso le altre sétte. I soli Homousiani (così venivano chiamati coloro che avevano accettato la definizione del concilio di Nicea intorno alla divinità di Cristo Gesù) ed i Novaziani che convengono nella fede di quelli, han rigettato il prete penitenziere. Anzi i Novaziani neppure da principio vollero ammettere quest’aggiunta. Ma gli Homousiani, i quali ora tengono le chiese, avendo per alcun tempo conservata questa istituzione, finalmente, ai tempi di Nettario vescovo, l’abrogarono a cagione di un certo delitto commesso nella chiesa’. Il delitto in questione fu il seguente. Una nobile signora di Costantinopoli confessò di avere compiuto adulterio con un certo diacono di quella chiesa; il fatto da lei confessato però venne a conoscenza di tutti, per cui si decise di abolire la confessione per il male che ne derivava. Questa abolizione della confessione privata da farsi al prete sta ad indicare come essa non era reputata dai vescovi di allora di istituzione divina e necessaria alla salvezza come invece viene fatto credere oggi. Ma verso il 450, il vescovo di Roma Leone I incominciò a introdurre nella chiesa romana l’uso della confessione al penitenziere. E col passare del tempo essa si andò sempre più diffondendosi in Occidente. Nel nono secolo, secondo diverse testimonianze cattoliche, la confessione auricolare al prete era semplicemente un uso ma non era ancora assolutamente obbligatoria e il prete non dava l’assoluzione che noi conosciamo oggi perché non veniva insegnato che egli avesse l’autorità di rimettere i peccati e quindi la confessione non era indispensabile alla salvezza. In un canone del concilio di Chalons tenutosi nel 813 si legge: ‘Alcuni dicono che bisogna confessare i propri peccati a Dio, altri dicono che bisogna confessarli ancora ai preti’. Nel dodicesimo secolo i teologi papisti passarono a fare della confessione al prete una dottrina insegnata dalla Scrittura ma tra di loro c’erano molte divergenze a riguardo della sua istituzione (alcuni dicevano che era di diritto divino mentre altri che fosse un precetto ecclesiastico), e del potere del prete (alcuni dicevano che il prete rimetteva i peccati mentre altri dicevano che egli li dichiarava solo rimessi da Dio). In altre parole non c’era ancora una dottrina stabilita sulla confessione; si andò comunque via via facendo strada e fortificandosi sempre di più l’idea che fosse stata istituita da Cristo e che il prete avesse il potere divino di rimettere i peccati, per cui essa era obbligatoria. La confessione, come abbiamo visto, diventerà obbligatoria nel tredicesimo secolo sotto Innocenzo III. Diventerà poi ufficialmente sacramento al concilio di Firenze del 1439 che la incluse tra i sacramenti istituiti da Gesù Cristo.

[13] Giuseppe Perardi, op. cit., pag. 521

[14] Concilio di Trento, Sess. XIV, cap. V

[15] Giuseppe Perardi, op. cit., pag. 535

[16] Ibid., pag. 543

[17] Ibid., pag. 543

[18] Ibid., pag. 544

[19] Ibid., pag. 544

[20] Ibid., pag. 544

[21] Concilio di Trento, Sess. XIV, can. 14

[22] Giuseppe Perardi, op. cit., pag. 546

[23] Costituzione Apostolica Indulgentiarum Doctrina di Paolo VI, 8

[24] Concilio di Trento, Sess. XXV, cap. XXI. Per capire l’uso che nel passato i papi hanno fatto dell’indulgenza plenaria citiamo i seguenti fatti storici. Al concilio di Clermont nel 1095 Urbano II per invogliare i Cattolici romani a partecipare alla prima crociata contro i Mussulmani, che controllavano i luoghi sacri in Terra Santa, proclamò che il pellegrinaggio armato in Terra Santa (in altre parole, compiuto col fine di strappare i luoghi sacri dalle mani dei Mussulmani) sarebbe equivalso ad una penitenza per tutti i peccati che i pellegrini avessero confessati e di cui si fossero pentiti. Questo equivalse a dire che i pellegrini potevano abbandonarsi a violenze e soprusi di ogni genere tanto alla fine avrebbero ottenuto dal loro papa il condono della penitenza meritata per tutti i loro misfatti: e difatti questo è quello che avvenne in quella prima crociata, i pellegrini durante il viaggio in terra Santa sterminarono migliaia di Ebrei (che assieme ai Mussulmani erano fortemente odiati dai papi) e giunti in Israele compirono sanguinosi massacri per liberare Gerusalemme dalla mano dei Turchi. Quando poi la chiesa cattolica romana, per sterminare gli ‘eretici’, istituì l’Inquisizione il papa concedeva l’indulgenza plenaria a coloro che portavano la legna per erigere il rogo destinato agli ‘eretici’. Il che voleva dire dichiarare la partecipazione alla morte di un ‘eretico’ un opera pia degna del più grande rispetto.

[25] Sessolo Giovanni, L’aggiornamento delle indulgenze, Milano 1968, pag. 61

[26] Sessolo Giovanni, op. cit., pag. 61

[27] Ibid., pag. 18

[28] Costituzione Apostolica Indulgentiarum Doctrina, norma 17

[29] Le indulgenze risalgono all’undicesimo secolo. In breve, la loro storia è questa. Anticamente la Chiesa cominciò ad infliggere una penitenza (delle punizioni) a coloro che cadevano in determinati peccati (idolatria, omicidio, fornicazione, adulterio) prima di ‘assolverli’ e riammetterli alla comunione. La durata della penitenza era proporzionata alla qualità di ogni colpa, e tale durata era divisa in vari stadii. Il primo stadio si chiamava fletus o pianto; il penitente vestito di sacco e coperto di cenere si doveva fermare davanti alla porta del locale di culto, perché non vi poteva entrare, e chiedere a coloro che vi entravano di pregare per lui. Il secondo stadio si chiamava auditio od ascoltare; il penitente poteva entrare nel locale di culto ma doveva starsene vicino alla porta e al termine della predicazione, prima che cominciassero le preghiere, doveva uscire dal locale di culto. Il terzo grado si chiamava substratio o chinato; il penitente doveva starsene in ginocchio tutto il tempo che si facevano delle preghiere per lui, e durante questo periodo doveva fare certi lavori come per esempio scopare il locale di culto. Il quarto stadio era chiamato consistentia o rimanenza; il penitente poteva entrare nel locale di culto e partecipare al culto, ma non alla cena del Signore. Dopo avere superato questo stadio il penitente veniva ammesso alla cena del Signore, in seguito alla cerimonia della riconciliazione compiuta dal vescovo mediante l’imposizione delle mani. A poco a poco a quei peccati visti sopra ve ne furono aggiunti altri con le relative penitenze da espiare. Si vennero così a formare i Canoni Penitenziali che erano la regola che doveva seguire il vescovo nell’infliggere le penitenze nei diversi casi che si presentavano. Per esempio secondo uno di questi canoni chi lavorava di Domenica doveva stare 3 giorni a pane ed acqua, un altro canone diceva che chi malediceva i genitori doveva stare a pane ed acqua per 40 giorni, un altro ancora che chi li percuoteva doveva fare 7 anni di penitenza, per chi compiva un ‘piccolo’ furto c’era 1 anno di penitenza, per chi testimoniava il falso c’erano 8 anni di penitenza e per chi non pagava le decime la punizione era che doveva pagare il quadruplo e stare a pane ed acqua per 20 giorni. Il vescovo però poteva a suo piacimento diminuire gli anni di penitenza a secondo della condotta del penitente; questo alleviamento di pena era chiamato indulgenza. Ma siccome che molti, a motivo di svariati loro peccati commessi, avevano accumulato così tanti anni di penitenza che non gli sarebbero bastate più vite sulla terra per espiarla, allora i vescovi pensarono di commutare la pena con denaro e siccome che in quel tempo nacquero le crociate contro i Turchi per andargli a togliere dalle mani i luoghi sacri chi prendeva le armi per andare a combattere i Turchi riceveva la remissione di tutta la pena da espiare mentre chi non poteva o non voleva andare a combattere poteva riscattare tutta la pena pagando del denaro che sarebbe servito alla crociata. Ma col passare del tempo si era fortificata la dottrina del purgatorio, che venne ufficializzata al concilio di Firenze (1439), per cui l’indulgenza cominciò ad essere applicata anche alle anime che si diceva fossero là ad espiare i loro peccati. Ecco sorgere quindi le indulgenze papali per i morti a metà del XV secolo. Nel 1457 Callisto III (1455-1458) concesse al re Enrico IV di Castiglia una indulgenza plenaria per i vivi, e per quelli che pagassero 200 maravedi per la crociata contro i Mori, una indulgenza per i defunti. E Sisto IV (1471-1484) nel 1476 concesse per la cattedrale di Saintes (Francia) una bolla, valevole per 10 anni, con indulgenza plenaria per i vivi e anche per i defunti.

[30] Giuseppe Perardi, op. cit., pag. 175

[31] Bernardo Bartmann, op. cit., pag. 311

[32] Concilio di Trento, Sess. XIV, can. 1