L’interpretazione delle lingue non è una profezia perché chi parla in altra lingua parla a Dio e non agli uomini

La Chiesa Cattolica Romana – Indice  >  Il movimento carismatico cattolico  >  La dottrina e la prassi  >  L’interpretazione delle lingue non è una profezia perché chi parla in altra lingua parla a Dio e non agli uomini

Per quanto riguarda poi l’interpretazione delle lingue occorre dire che siccome Paolo dice che “chi parla in altra lingua non parla agli uomini, ma a Dio”,[1] di conseguenza anche l’interpretazione deve corrispondere ad un parlare a Dio e non può essere una profezia perché la profezia è un parlare agli uomini. Vediamo altre Scritture che confermano che chi parla in altra lingua parla a Dio e non sta profetizzando in altra lingua per cui l’interpretazione non è una profezia.

–  Paolo dice ai Romani: “Parimente ancora, lo Spirito sovviene alla nostra debolezza; perché noi non sappiamo pregare come si conviene; ma lo Spirito intercede egli stesso per noi con sospiri ineffabili; e Colui che investiga i cuori conosce qual sia il sentimento dello Spirito, perché esso intercede per i santi secondo Iddio”;[2]

–  Paolo dice ai Corinzi: “Se prego in altra lingua, ben prega lo spirito mio, ma la mia intelligenza rimane infruttuosa. Che dunque? Io pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l’in­telligenza; salmeggerò con lo spirito, ma salmeggerò anche con l’intelligenza. Altrimenti, se tu benedici Iddio soltanto con lo spirito, come potrà colui che occupa il posto del semplice udito­re dire ‘Amen’ al tuo rendimento di grazie, poiché non sa quel che tu dici? Quanto a te, certo, tu fai un bel ringraziamento; ma l’altro non è edificato”;[3]

–  Paolo dice agli Efesini: “Orando in ogni tempo, per lo Spirito, con ogni sorta di preghiere e di supplicazioni”.[4]

–  Giuda dice: “Ma voi, diletti, edificando voi stessi sulla vostra santissima fede, pregando mediante lo Spirito Santo, conservatevi nell’amor di Dio”.[5]

Ricapitolando; chi parla in altra lingua prega Dio, canta a Dio, rende grazie a Dio, e perciò l’interpretazione corrisponde allo specifico parlare a Dio da lui proferito per lo Spirito in quel momento. L’interpretazione non può consistere in una profezia perché altrimenti la Scrittura sarebbe annullata.

Qualcuno allora dirà: che dire allora delle seguenti parole di Paolo: “Chi profetizza è superiore a chi parla in altre lingue, a meno ch’egli interpreti, affinché la chiesa ne riceva edificazione”?[6] Diremo che con queste parole Paolo non ha per nulla detto che il parlare in lingue interpretato corrisponde ad una profezia. Perché? Perché Paolo precedentemente ha spiegato che chi parla in altra lingua parla non agli uomini ma a Dio, mentre chi profetizza parla agli uomini, per cui – spiega sempre Paolo – “chi parla in altra lingua edifica se stesso; ma chi profetizza edifica la chiesa”.[7] Ecco perché Paolo all’inizio del suo discorso dice di desiderare principalmente il dono di profezia. Ma pure, anche se chi parla in altra lingua parla a Dio e non agli uomini, ed edifica se stesso, la Chiesa può ricevere pure essa edificazione da quel parlare in lingue, e questo avviene quando chi parla in lingue interpreta pure, per lo Spirito, quanto detto in una lingua sconosciuta. Perché la Chiesa sarà edificata? Perché mediante l’interpretazione intenderà quanto lo Spirito ha proferito in altra lingua per bocca del credente. Se per esempio il parlare in altra lingua consisteva in una intercessione a favore di determinati fratelli che si trovavano in pericolo di morte in quel momento, o nella necessità di qualche cosa di materiale o di spirituale, la Chiesa sarà edificata nel sapere che lo Spirito ha pregato per quei santi a loro sconosciuti in base al loro bisogno. Se poi lo Spirito ha fatto salmeggiare il credente, la Chiesa intenderà il salmo innalzato in altra lingua dal credente. In questo caso quindi, mediante l’interpretazione la Chiesa sarà edificata. Quello che purtroppo molti non hanno ancora capito è che la Chiesa per essere edificata non deve per forza di cose sentire una profezia, ma può sentire pure l’interpretazione di un parlare in lingua. O meglio, che la Chiesa viene edificata anche nel sentire una preghiera o un salmo interpretato, anche se sappiamo che la preghiera e i salmi vengono rivolti a Dio. Come noi siamo edificati nel leggere le suppliche e i cantici di Davide, che ricordiamo furono da lui innalzati per lo Spirito in ebraico (attenzione, per evitare fraintesi, Davide non parlava in altre lingue) e che qualcuno ha tradotto per noi, così saremo edificati quando dopo che qualcuno ha parlato in altra lingua a Dio, lui o qualcun altro interpreteranno, per lo Spirito, quel suo parlare. Di certo è così.

Ma c’è da dire qualcosa d’altro nella nostra confutazione, e cioè che da come parla Sullivan il parlare in altre lingue che precede ‘l’interpretazione’ non sarebbe altro che un segnale che avverte l’uditorio che una profezia è imminente. In sostanza non un vero parlare in altra lingua che ha bisogno di essere seguito dalla relativa interpretazione per essere reso intelligibile, ma una sorta di avvertimento sonoro che non ha in sé nessun significato non essendo una vera e propria lingua. E questo si collega alla sua affermazione secondo cui il parlare in lingue consiste in ‘una messa in moto di un’attitudine latente naturale a emettere spontanea­mente dei suoni simili a un linguaggio e ciò non necessariamente ad opera dello Spirito Santo’. Quindi occorre dire che nell’ambiente carismatico cattolico quella che viene chiamata interpretazione delle lingue per loro non è l’interpretazione del messaggio dato in un altra lingua ma una profezia che viene data dopo il ‘segnale di avvertimento’. Tutto ciò è inaccettabile alla luce delle sacre Scritture perché come abbiamo visto il parlare in altre lingue è un vero parlare in una o più lingue straniere compiuto per opera dello Spirito Santo per bocca del credente; il parlare è rivolto a Dio e quindi, se c’è chi interpreta, l’interpretazione corrisponderà non in un messaggio diretto agli uomini ma in una preghiera o in un ringraziamento. E poi perché chi profetizza non ha bisogno di dare un segnale o che altri diano un segnale che avverta l’imminente profezia, perché il dono di profezia si manifesta indipendentemente dal parlare in lingue, e perciò quand’anche non ci fosse chi parla in altra lingua in una riunione, chi ha il dono di profezia quando lo Spirito Santo lo sospinge a profetizzare lo fa senza nessun problema e si mette a profetizzare anche se prima non c’è stato nessun parlare in lingue. Quindi, per parlare alla maniera di Sullivan, diciamo che il parlare in lingue e la successiva interpretazione non costituiscono affatto due momenti di una medesima profezia.

Un ultima cosa infine; se il parlare in lingue non consiste in un parlare in un idioma reale ma sconosciuto ma solo in un emissione di suoni simili ad un linguaggio e ciò non necessariamente ad opera dello Spirito Santo, non solo non si può definire parlare in altre lingue, ma neppure l’interpretazione delle lingue si può chiamare così, perché non sarebbe per nulla l’interpretazione di un reale parlare in lingue. Se infatti esso consiste nell’emissione di suoni simili ad un linguaggio come si può parlare di interpretazione di una o più lingue? Quindi, quando si sente dire ai Cattolici carismatici che parlano in altre lingue e che interpretano, occorre tener presente qual’è il reale insegnamento che viene loro dato a proposito del parlare in lingue e dell’interpretazione; insegnamento che si distacca profondamente da quello dato dall’apostolo Paolo. Certo, forse non tutti i carismatici cattolici accettano gli insegnamenti di Sullivan, ma rimane il fatto che molti li accettano e perciò non si attengono alla verità neppure in questo. State molto attenti fratelli, perché nell’ambiente carismatico cattolico c’è parecchia confusione, e molti termini biblici che usano non hanno per nulla il significato che gli è proprio.

 


[1] 1 Cor. 14:2

[2] Rom. 8:26,27

[3] 1 Cor. 14:14-17

[4] Ef. 6:18

[5] Giuda 20,21

[6] 1 Cor. 14:5

[7] 1 Cor. 14:4