Il pagamento dei tributi

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La dottrina dei teologi papisti

Le chiese e gli ecclesiastici, in virtù di un privilegio che hanno per diritto divino, non sono obbligati a pagare dazi, imposte e gabelle alle autorità civili.

‘E’ proibito, sotto pena di scomunica, ai magistrati secolari d’imporre alle chiese pesi, come scavamenti, spedizioni, ed altri siffatti’;[1] ‘Le collette pei militi, le ospitalità, ed altri pesi sulle Chiese, e luoghi pii, e sugli ecclesiastici, e le imposte ai loro beni, o frutti, anche pagati spontaneamente, sono proibiti ai laici, senza che l’autorità Apostolica lo permetta’;[2] ‘Le Chiese non son tenute a pagare imposte; né i luoghi pii, né gli ecclesiastici, o Secolari o Regolari d’ambo i sessi. Non possono essere gravati, sia direttamente, sia indirettamente, di gabelle, tributi ed altri pesi, sui beni che possiedono, o in titolo della loro carica, o in qualsiasi altro modo, come p. es. a titolo di eredità, oppure di donazione ecc., poiché i diritti surriferiti parlano indistintamente’.[3]

Ecco perché l’art. 16 del Trattato del Laterano esenta molti immobili del Vaticano (quelli citati negli articoli 13,14,15,16) ‘da tributi sia ordinari che straordinari tanto verso lo Stato quanto verso qualsiasi altro ente’ e l’art. 17 esenta da qualsiasi tributo verso lo Stato le retribuzioni dovute a dignitari, impiegati e salariati della ‘Santa Sede’ e dagli altri enti centrali della Chiesa, anche fuori di Roma;[4] e l’art. 20 esenta da tutti i dazi doganali le merci importate dalla Città del Vaticano e da istituzioni e uffici della ‘Santa Sede’ anche fuori di Roma; perché la chiesa cattolica ritiene di avere il diritto di non pagare i tributi e le gabelle ai governanti. Questo diritto fa parte delle immunità ecclesiastiche.[5]

A sostegno di questo suo diritto (considerato di natura divino) di non pagare i tributi allo Stato la chiesa cattolica romana prende le parole di Gesù: “I figliuoli, dunque, ne sono esenti”;[6] e le seguenti parole scritte nella storia di Giuseppe: “Giuseppe ne fece una legge, che dura fino al dì d’oggi, secondo la quale un quinto del reddito delle terre d’Egitto era per Faraone; non ci furono che le terre dei sacerdoti che non furono di Faraone”.[7]

Come il Vaticano può reagire se gli viene negato questo suo cosiddetto diritto.

A proposito di questo suo cosiddetto diritto di non dovere pagare le tasse alle autorità voglio ricordare alcuni fatti verificatisi alcuni decenni fa che fanno capire come il Vaticano può reagire quando gli viene negato da parte del governo statale questo suo cosiddetto diritto.

Nel 1935 il governo fascista aveva imposto sui dividendi una tassa speciale, tassa che li colpiva all’origine. Le società, prima di distribuire agli azionisti i dividendi, dovevano detrarne la tassa in questione (il 10% in un primo momento, portata in seguito al 20%), versando direttamente al ministero delle Finanze la somma corrispondente. La tassa si chiamò ‘cedolare’ perché applicata alle cedole o cuponi. Il Vaticano che in quel tempo era piuttosto intimorito dal regime fascista non disse una parola e pagò regolarmente la tassa. Nel 1942 il ministero delle Finanze dava disposizione a tutti gli uffici competenti di esentare la ‘Santa Sede’ dal pagamento della ‘cedolare’. La circolare era firmata dall’allora Direttore Generale del ministero delle Finanze che si chiamava Buoncristiano, ed elencava le organizzazioni che facevano capo alla ‘Santa Sede’: il Sant’Uffizio, la Congregazione Concistoriale, quella del Concilio, la Congregazione per i Religiosi, Propaganda Fide, la Congregazione per le Università e i Seminari, la Fabbrica di San Pietro, i Tribunali Vaticani della Penitenziera Apostolica, della Segnatura Apostolica e della Sacra Rota, oltre ai seguenti uffici; la Cancelleria Apostolica, la Reverenda Camera Apostolica, la Segreteria di Stato, l’Amministrazione dei Beni della Santa Sede, l’Amministrazione Speciale e l’Istituto per le Opere di Religione. A riguardo di questo Istituto era detto tra parentesi ‘in quanto amministra fondi appartenenti alla Santa Sede’. Il 29 Dicembre 1962, il governo italiano applicò di nuovo una tassa del 15% sui cuponi, aumentandola in seguito sino al 30%. Questa tassa fu chiamata ‘cedolare secca’. Il Vaticano accettò ufficialmente l’imposizione della cedolare senza protestare, ma subito iniziò delle trattative segrete con il Governo italiano. Le trattative si conclusero nell’ottobre del 1963 con uno scambio di note tra il Segretario di Stato, cardinale Cicognani, e l’ambasciatore d’Italia presso la ‘Santa Sede’, Bartolomeo Migone. Ecco alcune parole del testo della nota del cardinale Cicognani datata 11 Ottobre 1963: ‘Nello spirito del nostro Concordato con riguardo alla citata legge n. 1745, sarebbe auspicabile anche ora il riconoscimento di un trattamento agevolativo alla Santa Sede. Pertanto propongo: che la ritenuta d’acconto o d’imposta istituita con la legge 29 dicembre 1962, non sia applicata, con decorrenza dalla istituzione della medesima, sugli utili in qualsiasi forma e sotto qualsiasi denominazione distribuiti dalle società e spettanti alla Santa Sede (..) Qualora il Governo italiano accettasse la proposta contenuta nella presente lettera, La pregherei di darmene cortese conferma’. Quello stesso giorno l’ambasciatore italiano rispondeva: ‘Eminenza Reverendissima, ho l’onore di accusare ricevuta della nota di Vostra Eminenza Reverendissima in data odierna, così concepita: (segue il testo completo della lettera del cardinale Cicognani). Ho l’onore di portare a conoscenza di Vostra Eminenza Reverendissima che il Governo italiano è d’accordo su quanto forma oggetto della Nota sopra riportata..’. Il governo di allora era un governo provvisorio ed era capeggiato da Giovanni Leone. La cosa però fu tenuta segreta; né il Parlamento e né l’opinione pubblica ne furono informati. Circa un mese dopo, il 13 novembre 1963, il ministro delle Finanze Mario Martinelli inviò una circolare all’Associazione fra le Società italiane per Azioni e all’Associazione fra le Banche, ordinando di non dedurre il 30% dai dividendi delle azioni di proprietà della Santa Sede. Questo documento fu emanato però in queste circostanze: lo scambio di note tra il cardinale Cicognani e l’ambasciatore Migone non era stato approvato dal Parlamento che non ne sapeva nulla, e il governo si era dimesso otto giorni prima che Martinelli firmasse la circolare, quando cioè Martinelli non era più ministro delle Finanze. Quando poi Aldo Moro formò il nuovo governo, Roberto Tremelloni prese il posto di Martinelli al dicastero delle Finanze. Scoperta l’esistenza della circolare Tremelloni ne fu sdegnato e minacciò di dimettersi se non fosse stata immediatamente annullata. Allora Moro propose un compromesso per risolvere l’imbarazzante situazione; il Governo italiano avrebbe presentato al Parlamento un progetto di legge per ratificare lo scambio delle Note, rendendo così legale la circolare di Martinelli anche se con effetto retroattivo. Il Vaticano, da parte sua, avrebbe informato il Governo italiano dell’esatto ammontare dei titoli azionari in suo possesso affinché il Governo potesse sapere e riferire al Parlamento quali valori venivano esentati dal pagamento della ‘cedolare’. Il compromesso però non fu accettato né dal cardinale Cicognani, il quale si rifiutò di svelare l’ammontare degli investimenti del Vaticano, né dai socialisti al Governo. Nel giugno 1964, caduto il Governo, Moro formò una seconda coalizione di governo. Allora il Vaticano minacciò, se le cose non si risolvevano come voleva, di buttare sul mercato tutti i titoli azionari in suo possesso. E dato che in quel tempo la Borsa era in crisi, se il Vaticano avesse messo in pratica la minaccia, il suo gesto avrebbe avuto delle conseguenze disastrose per l’economia italiana. Il Governo allora fu costretto ad arrendersi (certamente il partito democristiano non si arrese di malavoglia), e nell’ottobre del 1964 venne preparato un progetto di legge, che doveva ratificare lo scambio di Note tra il Governo e il Vaticano, avvenuto un anno prima. La legge fu approvata dal Consiglio dei Ministri; ma la cosa finì lì perché quella legge non venne presentata al Parlamento per essere approvata, respinta o modificata. Il Vaticano intanto continuava a non pagare la tassa; la stampa di sinistra allora nel 1967 attaccò il Governo, voleva sapere perché il Vaticano non pagava la tassa, quanto non pagava e quanti titoli possedeva in Italia. Cominciarono così a uscire dei dati. Nel gennaio del 1968 il Presidente del Consiglio Giovanni Leone dichiarò in Senato: ‘Il Governo non proporrà il disegno di legge di ratifica e pertanto la Santa Sede pagherà l’imposta secondo quanto stabilito dalla legge’. Il Vaticano allora si rassegnò e fece sapere che avrebbe pagato la cedolare e chiese la rateizzazione delle quote arretrate. Ma quanti titoli azionari possedeva il Vaticano in Italia in quel tempo? Ne possedeva per un valore di circa cento miliardi. Nel febbraio del 1968 infatti il ministro delle Finanze Preti, nel corso di un dibattito alla Commissione Parlamentare per gli Affari Esteri, disse che la Santa Sede possedeva titoli azionari italiani per un valore di circa cento miliardi, con un dividendo che oscillava dai tre ai quattro miliardi l’anno. Va detto però che il Vaticano pur accettando di pagare la cedolare continuò a protestare in linea di principio sostenendo che l’esenzione gli era dovuta sia giuridicamente in quanto ente morale ed ente internazionale sia in base alla Legge sulle Guarentigie e al Concordato.

 


[1] Decretal. Tit. XLIX De imm. Eccl. cap. 4. Non minus

[2] Urbano VIII p., Bolla del 5 Giugno 1641

[3] Felice Potestà, Exam. Eccl. tom. 1, part. 2, De primo praec. Decal. cap. 4

[4] Ancora prima della stipulazione del Concordato la chiesa cattolica usufruiva di esenzioni fiscali. La disposizione contenuta nell’art. I n. I r.d. 13 febbraio 1927, n. 124. accordava l’esenzione dall’imposta sui celibi ai sacerdoti cattolici ed ai religiosi che avessero pronunciato i voti di castità.

[5] Nel Nuovo Concordato del 1984 in materia di esenzioni fiscali le cose sono rimaste sostanzialmente invariate infatti l’art. 7 dice che ‘agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione’. Va segnalato però che lo stesso articolo dice subito dopo che ‘le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime’. La chiesa cattolica gode tuttora di svariate esenzioni fiscali anche in questa nazione.

[6] Matt. 17:26

[7] Gen. 47:26. Dato che le esenzioni tributarie concesse ai beni e agli ecclesiastici della chiesa cattolica sono da quest’ultima ritenute di diritto divino non è ammesso dire che esse trovano la loro origine nella legge civile. Pio IX (il papa che volle farsi dichiarare infallibile) condannò l’opinione secondo cui le immunità ecclesiastiche trovano la loro origine nella legge civile e che dipendono in tutto da questa, in quanto esse possono essere concesse od abrogate a discrezione dell’autorità civile, trovando il loro fondamento nel diritto positivo degli Stati. Questa sua condanna fu enunciata il 10 giugno 1851 nell’allocuzione Multiplices inter. Quindi, quando la chiesa cattolica si accinge a stipulare un concordato con uno Stato, essa ritiene che le esenzioni fiscali le sono dovute dallo Stato per diritto divino, e non che le possono essere o non essere concesse dall’autorità civile. In altre parole lo Stato ha il dovere di concedere questi privilegi fiscali alla chiesa cattolica perché Dio ha stabilito così!