Risposte alle obiezioni più frequenti fatte da coloro che non sostengono un totale rifiuto da parte del cristiano dell’uso della forza sia per difendere se stessi che gli altri

Gli Avventisti del Settimo Giorno – Indice  >  Altri loro insegnamenti  >  Il servizio militare e la guerra; e l’uso della forza in difesa di se stessi e dei deboli e degli indifesi  >  Risposte alle obiezioni più frequenti fatte da coloro che non sostengono un totale rifiuto da parte del cristiano dell’uso della forza sia per difendere se stessi che gli altri

1) La legge di Mosè non prevedeva l’odio verso i propri nemici ma l’amore verso di essi; sì essa permetteva l’uso della forza contro i nemici ma solamente in difesa di se stessi e dei deboli. Siccome quindi che Cristo non ha abolito la legge, Egli non è venuto a portare una presunta nuova legge dell’amore che escluda totalmente l’uso della forza contro i nostri nemici.

Per sostenere queste cose occorrerebbe dimostrare innanzi tutto che la legge di Mosè non prevedeva l’odio verso i nemici (per cui Cristo quando disse che fu detto odia il tuo nemico non si riferì alla legge ma a un detto popolare), e in secondo luogo che Cristo durante la sua vita fece uso della forza per difendersi quando la sua vita fu in pericolo o per punire i malfattori come prevedeva la legge di Mosè. E’ possibile fare ciò? Assolutamente no. Cominciamo dalla legge di Mosè. Viene detto che la legge di Mosè non prevedeva l’odio verso i propri nemici ma l’amore operante verso di essi, per cui Cristo non ha portato sostanzialmente una nuova legge. Ora, domandiamo, un familiare credente che all’improvviso si svia dalla fede e dalla verità per andare dietro agl’idoli muti e ci incita ad abbandonare la via santa è un nemico? Ritengo di sì, non vi pare? Bene, ecco cosa ordina la legge di Mosè di fare a questo nostro familiare: “Se il tuo fratello, figliuolo di tua madre, o il tuo figliuolo o la tua figliuola o la moglie che riposa sul tuo seno o l’amico che ti è come un altro te stesso t’inciterà in segreto, dicendo: ‘Andiamo, serviamo ad altri dèi’: dèi che né tu né i tuoi padri avete mai conosciuti, dèi de’ popoli che vi circondano, vicini a te o da te lontani, da una estremità all’altra della terra, tu non acconsentire, non gli dar retta; l’occhio tuo non abbia pietà per lui; non lo risparmiare, non lo ricettare; anzi uccidilo senz’altro; la tua mano sia la prima a levarsi su lui, per metterlo a morte; poi venga la mano di tutto il popolo; lapidalo, e muoia, perché ha cercato di spingerti lungi dall’Eterno, dall’Iddio tuo, che ti trasse dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù. E tutto Israele l’udrà e temerà e non commetterà più nel mezzo di te una simile azione malvagia”.[1] Ora, diciamo noi, se Dio ha comandato nella legge non solo di non dare retta all’incitamento del familiare sviato, ma di levarsi contro di esso per prima e di ucciderlo, di non avere nessuna pietà verso di esso, come si può dire che la legge non ha detto di odiare il proprio nemico? O forse si può dimostrare che l’atto di levarsi contro il proprio familiare sviato e di ucciderlo sia una prova di amore verso di lui? Dunque quando Gesù ha detto voi avete udito che fu detto “odia il tuo nemico” si riferiva alla legge, tanto è vero che Davide diceva a Dio basandosi sulla legge di Mosè: “O Eterno, non odio io quelli che t’odiano? E non aborro io quelli che si levano contro di te? Io li odio di un odio perfetto; li tengo per miei nemici”.[2] Ecco perché Davide pregava per la morte dei suoi nemici dicendo: “Li colga una ruina improvvisa. Spandi l’ira tua su loro. Sian ridotti al silenzio nel soggiorno de’ morti”.[3] Ma veniamo a noi che ora siamo sotto la grazia. Come ci dobbiamo comportare in quella eventualità prospettata dalla legge, cioè nel caso un nostro fratello, un nostro figlio o nostra moglie lasci la via di Dio per andare dietro agli idoli (quelli della chiesa cattolica romana per esempio) e ci incita a fare lo stesso? La Parola di Dio ci comanda di non fare loro alcun male. Per esempio Paolo dice a Timoteo sul comportamento che deve tenere il servitore di Dio nei confronti di chi si è sviato dalla verità (nella speranza che Dio gli dia il ravvedimento): “Or il servitore del Signore non deve contendere, ma dev’essere mite inverso tutti, atto ad insegnare, paziente, correggendo con dolcezza quelli che contraddicono, se mai avvenga che Dio conceda loro di ravvedersi per riconoscere la verità; in guisa che, tornati in sé, escano dal laccio del diavolo, che li avea presi prigionieri perché facessero la sua volontà”.[4] E Giacomo a proposito di chi si svia dalla verità lascia intendere che egli può essere convertito infatti dice: “Fratelli miei, se qualcuno fra voi si svia dalla verità e uno lo converte, sappia colui che chi converte un peccatore dall’error della sua via salverà l’anima di lui dalla morte e coprirà moltitudine di peccati”.[5] Come potete vedere, fratelli, sotto la grazia verso chi si svia dalla verità non bisogna comportarsi come dice la legge di Mosè levandoci e uccidendo lo sviato, ma pazientando correggendolo con dolcezza se mai avvenga che Dio gli conceda il ravvedimento ed esca dal laccio del diavolo. Naturalmente questo atteggiamento non è altro che l’adempimento delle parole di Gesù di amare i nostri nemici e di pregare per quelli che ci perseguitano. Ma veniamo ad un altro esempio che mostra come ci sia differenza tra la legge di Mosè e quella di Cristo a riguardo del comportamento da tener nei confronti dei nostri nemici. La legge di Mosè dice: “Darai vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, scottatura per scottatura, ferita per ferita, contusione per contusione”.[6] E’ chiara la cosa dunque, secondo la legge se uno ci percuote sulla faccia e ci rompe un dente o ci rompe la mascella noi dobbiamo rispondergli percuotendolo sulla faccia per rompergli il dente e la mascella. Come ci ha fatto, così noi dobbiamo fargli. Che cosa è se non l’odio verso il nostro percotitore che ci deve spingere a rispondergli come merita secondo la legge di Mosè? Certamente non può essere dell’amore verso il nemico che ci spingerebbe a fare al nostro nemico quello che ci ha fatto a noi. Dunque ancora una volta vediamo come la legge di Mosè prevede l’odio verso il proprio nemico. Ma che ha detto Gesù di fare in caso veniamo percossi sulla faccia? Egli da detto: “Ma io vi dico: Non contrastate al malvagio; anzi, se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l’altra…”.[7] Quel: “Ma io vi dico” segue queste sue parole: “Voi avete udito che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente”,[8] e fa chiaramente intendere che c’è una differenza tra la legge di Mosè e la legge di Cristo. Si noti che Gesù ha detto che in caso veniamo percossi sulla guancia destra dobbiamo porgere l’altra; e non percuotere il nostro avversario sulla guancia destra. Qui c’è una netta differenza con quello che disse Mosè. Cristo è superiore a Mosè.

Vediamo ora se secondo la Scrittura ci fu un uso della forza da parte di Cristo sia per difendere se stesso che per fare giustizia nella società. Gesù dopo che ebbe predicato nella sinagoga di Nazaret fu cacciato fuori della città e condotto fin sul ciglio del monte sul quale era costruita la città per essere precipitato giù dal monte. Momenti difficili dunque per lui perché i suoi nemici stavano per ucciderlo. Come reagì? Luca dice che “Passando in mezzo a loro, se ne andò”.[9] In un’altra occasione, dopo che Gesù disse ai Giudei: “Prima che Abramo fosse nato, io sono”, i Giudei “presero delle pietre per tirargliele”.[10] Gesù quindi stava per essere lapidato; un altro pericolo di morte dunque per lui. Come reagì? Giovanni dice: “Ma Gesù si nascose ed uscì dal tempio”.[11] Come si può vedere Gesù in questi casi non fece ricorso all’uso della forza contro i suoi nemici. E come abbiamo già dimostrato egli non contrastò i suoi nemici neppure quando poi fu arrestato, flagellato, condannato, e messo sulla croce. Fino alla fine subì torti di ogni genere. Lui si avviò allo scannatoio come un agnello muto, un docile agnello. Egli sapeva però che il terzo giorno dopo la sua morte sarebbe risuscitato; per cui davanti a lui era posta la gioia della risurrezione. Qualcuno però ritiene che Gesù usò la forza fisica contro i suoi nemici in una occasione, e cioè quando scacciò dal tempio coloro che vendevano e compravano. Ho letto e riletto l’episodio e devo dire che se è vero che la Scrittura dice che egli “cacciò fuori tutti quelli che quivi vendevano e compravano”,[12] è altresì vero che la stessa Scrittura non afferma che egli mise le mani addosso ai venditori e ai compratori, strattonandoli e spingendoli o percuotendoli con qualche bastone. Si può scacciare una persona da un luogo anche sgridandolo e non necessariamente percuotendola o spingendola con le mani o con i piedi fuori dal luogo; per cui riteniamo che Gesù li abbia cacciati in quella maniera a quei Giudei. Rimane poi da vedere se Gesù fece ricorso alla forza sia diretta o indiretta tramite le autorità per difendere gli oppressi, i perseguitati, i maltrattati. Anche in questo caso nella storia di Gesù di Nazaret così come la troviamo scritta da Matteo, Marco, Luca e Giovanni, non si intravede un ricorso a qualche forma di forza da parte di Gesù per difendere i deboli e gli oppressi che di certo c’erano anche allora. Dalle parole di Gesù i perseguitati a motivo di giustizia, quelli che facevano cordoglio a motivo dei torti subiti erano considerati beati; come avrebbe potuto mettersi a difenderli con la sua forza o tramite quella dello Stato per fare loro giustizia? Anche coloro che subivano oltraggi di ogni genere a motivo del suo nome erano da lui dichiarati beati. Dunque Gesù non fece ricorso a nessun tipo di forza fisica per difendere i deboli, i miti, i perseguitati. E come avrebbe potuto fare una simile cosa lui che era il Principe della pace? Lui che aveva detto di amare i nemici e di pregare per quelli che ci perseguitano? Gesù fu coerente, e questa sua coerenza ci deve servire d’esempio a noi che essendo suoi discepoli siamo figli della pace. Certo, non è facile seguire l’esempio di Gesù ma neppure impossibile.

2) L’apostolo Paolo ricorse alla forza dello Stato per salvare la propria vita.

Vediamo qual è la circostanza della vita di Paolo che viene additata per sostenere che Paolo ricorse alla forza dello Stato per salvare la propria vita. L’apostolo Paolo mentre era a Gerusalemme nel tempio fu preso da dei Giudei che cominciarono a batterlo con l’intento di ucciderlo. Ma siccome che giunse al tribuno la voce che tutta Gerusalemme era sottosopra, costui prese con sé dei soldati e dei centurioni e corse verso i Giudei i quali veduto il tribuno e i soldati smisero di battere Paolo. Il tribuno comandò che Paolo fosse legato con due catene, e portato dentro la fortezza, ma poco prima che fosse introdotto nella fortezza Paolo chiese al tribuno la cortesia di fargli dire qualche cosa ai Giudei. Il tribuno glielo permise, e così Paolo parlò ai Giudei. Egli raccontò loro come si era convertito a Cristo dopo avere perseguitato a morte coloro che invocavano il nome di Cristo. Dopo averlo sentito parlare per un po’, i Giudei alzarono la voce contro di lui chiedendo che fosse tolto di mezzo. Il tribuno allora lo menò dentro la fortezza per inquisirlo mediante flagelli per sapere perché i Giudei gridavano così contro di lui. Ma mentre Paolo era legato con delle cinghie, egli chiese se fosse lecito flagellare un cittadino romano senza che questi fosse stato condannato. Il centurione quando sentì dire che Paolo era un cittadino romano andò dal tribuno a riferirgli che Paolo era cittadino romano. Il tribuno allora dopo che ebbe saputo da Paolo che egli era un cittadino romano ebbe paura perché secondo la legge romana egli non avrebbe dovuto agire in quella maniera. Dopo di ciò il tribuno convocò il Sinedrio per sapere con certezza di cosa era accusato Paolo dai Giudei. Il tribuno così seppe che Paolo non era accusato per cose degne di morte ma per cose intorno alla religione. In quel tempo era governatore Felice. I Giudei allora fecero un complotto contro Paolo per ucciderlo, ma questo complotto venne a conoscenza del tribuno che decise di mandare Paolo dal governatore Felice a Cesarea scortato da dei soldati armati. A Cesarea Paolo fu accusato dai Giudei davanti al governatore, ma Paolo si difese con efficacia dalle loro accuse. Intanto Paolo era custodito in prigione. A Felice successe Festo il quale salito a Gerusalemme fu pregato dai capi sacerdoti e dai principali dei Giudei di fare in modo di far scendere Paolo a Gerusalemme e loro per via avrebbero fatto in modo di ucciderlo. Ma Festo disse loro che Paolo era custodito a Cesarea e che se c’era qualcuno fra loro che voleva scendere a Cesarea per accusarlo venisse pure a accusare Paolo. Allora alcuni Giudei scesero a Cesarea e si misero ad accusare Paolo davanti a Festo. A questo punto Luca dice: “Ma Festo, volendo far cosa grata ai Giudei, disse a Paolo: Vuoi tu salire a Gerusalemme ed esser quivi giudicato davanti a me intorno a queste cose? Ma Paolo rispose: Io sto qui dinanzi al tribunale di Cesare, ove debbo esser giudicato; io non ho fatto torto alcuno ai Giudei, come anche tu sai molto bene. Se dunque sono colpevole e ho commesso cosa degna di morte, non ricuso di morire; ma se nelle cose delle quali costoro mi accusano non c’è nulla di vero, nessuno mi può consegnare per favore nelle loro mani. Io mi appello a Cesare. Allora Festo, dopo aver conferito col consiglio, rispose: Tu ti sei appellato a Cesare; a Cesare andrai”.[13] Ora, secondo alcuni Paolo appellandosi a Cesare ricorse alla forza dello stato romano. Vorrei far presente però che Paolo non si appellò a Cesare perché aveva paura di morire per mano dei Giudei. Di pericoli di morte nel corso del suo apostolato ne aveva corsi molti, e mai si era messo a tremare dinanzi alla morte perché lui riteneva il morire un guadagno. Paolo era pronto a morire per Cristo tanto è vero che se torniamo un po’ indietro nel racconto di Luca troveremo che ancora prima di scendere a Gerusalemme era successo che mentre era a casa di Filippo, il profeta Agabo era sceso e aveva predetto che Paolo sarebbe stato arrestato a Gerusalemme e messo nelle mani dei Gentili. Dice Luca: “Eravamo quivi da molti giorni, quando scese dalla Giudea un certo profeta, di nome Agabo, il quale, venuto da noi, prese la cintura di Paolo, se ne legò i piedi e le mani, e disse: Questo dice lo Spirito Santo: Così legheranno i Giudei a Gerusalemme l’uomo di cui è questa cintura, e lo metteranno nelle mani dei Gentili. Quando udimmo queste cose, tanto noi che quei del luogo lo pregavamo di non salire a Gerusalemme. Paolo allora rispose: Che fate voi, piangendo e spezzandomi il cuore? Poiché io son pronto non solo ad esser legato, ma anche a morire a Gerusalemme per il nome del Signor Gesù. E non lasciandosi egli persuadere, ci acquetammo, dicendo: Sia fatta la volontà del Signore”.[14] Si presti attenzione alla risposta di Paolo. Ma ancora prima di arrivare a casa di Filippo in Cesarea, Paolo aveva dichiarato di essere disposto a morire per Cristo quando disse agli anziani di Efeso: “Ma io non fo alcun conto della vita, quasi mi fosse cara, pur di compiere il mio corso e il ministerio che ho ricevuto dal Signor Gesù, che è di testimoniare dell’Evangelo della grazia di Dio”.[15] Ma allora Paolo perché si appellò a Cesare? Semplice, perché in una visione avuta prima di comparire davanti a Festo (esattamente la notte dopo che era comparso davanti al Sinedrio a Gerusalemme) il Signore gli era apparso e gli aveva detto: “Sta’ di buon cuore, perché come hai reso testimonianza di me a Gerusalemme, così bisogna che tu la renda anche a Roma”.[16] Dunque Paolo sapeva che Dio lo chiamava a testimoniare di Cristo anche a Roma. Non deve sorprendere dunque sentirlo appellarsi a Cesare. E poi non si dimentichi che l’appello di Paolo a Cesare non fu altro che la risposta alla domanda di Festo che gli aveva chiesto se lui fosse disposto a salire a Gerusalemme con lui per essere ivi giudicato. E Paolo sapeva che c’erano dei Giudei che per via sarebbero stati pronti ad ucciderlo. Se lui avesse risposto di sì si sarebbe esposto alle insidie dei Giudei di sua spontanea volontà; perché farlo quando aveva la possibilità di appellarsi a Cesare? Io avrei fatto la medesima cosa; Paolo ne aveva il diritto e si valse di questo diritto. E poi davanti al tribunale di Cesarea Paolo era sul banco degli imputati e non sul banco degli accusatori. E poi Paolo con la sua risposta non reagì con il male ai Giudei che lo perseguitavano; cioè quella risposta che lui diede a Festo non andò a danno dei Giudei. Se Paolo avesse risposto in maniera tale da far sì che i Giudei fossero puniti tramite la sua testimonianza allora si potrebbe affermare che lui ricorse alla forza dello Stato per punire i Giudei disubbidienti ma nel caso specifico raccontato da Luca non si intravede questa cosa. Qualcosa doveva pur rispondere Paolo dinanzi alle accuse; doveva pur difendersi in qualche maniera. Vorrei fare notare inoltre che quando poi Paolo comparve davanti al re Agrippa, quindi davanti ad un autorità superiore, dopo che il re Agrippa ebbe ascoltato la difesa di Paolo disse a Festo: “Quest’uomo poteva esser liberato, se non si fosse appellato a Cesare”.[17] Il che lascia intendere che in effetti Paolo appellandosi a Cesare non aveva affrettato la sua scarcerazione ma l’aveva ritardata. Dunque la risposta di Paolo è da collegarsi al fatto che Dio gli aveva predetto che sarebbe dovuto comparire dinanzi a Cesare a Roma. Una risposta avveduta dunque che lui pronunciò per lo Spirito.

3) Giovanni Battista disse a quei soldati cosa dovevano fare: “Non fate estorsioni, né opprimete alcuno con false denunzie, e contentatevi della vostra paga”,[18] ma non gli disse che dovevano lasciare l’esercito.

E’ vero che questa fu la risposta di Giovanni Battista ma occorre tenere presente innanzi tutto che Gesù disse che “la legge ed i profeti hanno durato fino a Giovanni; da quel tempo è annunziata la buona novella del regno di Dio, ed ognuno v’entra a forza”,[19] e che “il minimo nel regno de’ cieli è maggiore di lui”.[20] Gesù è superiore a Giovanni Battista, e il minimo dei suoi discepoli pure. Dunque le parole di Giovanni vanno considerate alla luce di queste due dichiarazioni del Signore Gesù.

4) Il centurione che chiese a Gesù di guarire il suo servitore fu elogiato da Gesù per la sua fede e non fu esortato ad abbandonare la sua posizione militare; e il centurione Cornelio evangelizzato da Pietro era un uomo che temeva Dio e non fu esortato ad abbandonare l’esercito dopo la sua conversione.

Siamo d’accordo nel senso che anche noi riconosciamo che una simile esortazione rivolta a questi due centurioni non è trascritta. Però non ci sentiamo di escludere che questi uomini abbiano in seguito abbandonato il loro mestiere perché ritenuto incompatibile con la fede e perché li spingeva ad usare violenza contro le persone. Ma mettiamo il caso che questi due credenti siano rimasti nella loro posizione di centurioni romani. Viene da domandarsi: come si saranno sentiti interiormente dopo avere fatto flagellare qualche malfattore, o magari dopo aver comandato a dei soldati di crocifiggere dei malfattori? Avevano anche loro una coscienza? Se sì, questa coscienza avrà pur detto loro qualche cosa. Se lo Spirito Santo era in loro come reagiva lo Spirito Santo in loro quando comandavano di fare quegli atti? Io ho già raccontato che quando durante il servizio militare mi trovai a maneggiare delle armi, provavo un profondo senso di infelicità dentro di me. Mi sentivo trafitto interiormente; e si badi che non ho usato le armi contro nessuno. Figuriamoci se le avessi usate contro qualcuno realmente ferendolo o uccidendolo! Mi sarei certamente sentito morire. Mi è stato detto di un mio zio credente che ha fatto il carabiniere in Sicilia per molti anni che molte volte incitato a sparare contro dei malfattori si è rifiutato di farlo preso dall’angoscia del cuore. Si buttava in ginocchio davanti a Dio a implorarlo affinché non lo facesse sparare! E’ da capire; ma d’altronde lui aveva deciso di fare il carabiniere. Quando poi è andato in pensione per lui è stata la liberazione! Quante parole si possono dire con la bocca! Rimane il fatto però che la coscienza ci riprenderà se noi credenti agiremo contro la Parola di Dio. Mi ricordo che una volta durante il servizio militare in piena notte una guardia mi chiamò suonando l’allarme. Non sapevo cosa era successo; corsi a svegliare alcune guardie e gli dissi di prender il loro fucile. Corremmo alla postazione di guardia, e mi fu detto dalla guardia allarmata che c’era qualcuno che dal boschetto antistante lanciava delle pietre contro di lui. Che feci? Gridai contro lo sconosciuto qualche parola, e per impaurirlo misi il colpo in canna per fargli sentire il rumore del caricamento del fucile. Devo confessare però che avvertii subito che quantunque stessi cercando di tutelare la caserma e la guardia, avevo agito in maniera non cristiana. Sono cose che si sperimentano a livello di coscienza per cui se non si provano non si possono spiegare. Come desideravo che il militare finisse il più presto possibile, come avrei voluto non trovarmi a fare quel servizio! Ma ormai dovevo terminarlo. E quando lo terminai sentii una grande liberazione e una grande pace. Molti credenti quando parlano di fare ricorso alla violenza non importa se da un credente nell’esercito, nella polizia, tra i carabinieri, non si rendono conto di cosa prova un anima che ama il Signore nel momento in cui è chiamato a bastonare o a ferire o a uccidere una creatura umana. Sembra che parlino di bastonare o di ferire o di uccidere un cane randagio che ci aggredisce. No, l’uomo non è un animale (anche se agisce da animale alcune volte); è una creatura fatta all’immagine di Dio.

 


[1] Deut. 13:6-11

[2] Sal. 139:21-22

[3] Sal. 35:8; 69:24; 31:17

[4] 2 Tim. 2:24-26

[5] Giac. 5:19-20

[6] Es. 21:24-25

[7] Matt. 5:39

[8] Matt. 5:38

[9] Luca 4:30

[10] Giov. 8:59

[11] Giov. 8:59

[12] Matt. 21:12

[13] Atti 25:9-12

[14] Atti 21:10-14

[15] Atti 20:24

[16] Atti 23:11

[17] Atti 26:32

[18] Luca 3:14

[19] Luca 16:16

[20] Matt. 11:11