[World Watch List 2010] Persecuzione dei cristiani nel mondo, Prime dieci nazioni- #6 Afghanistan

E’ ancora estremamente difficile essere cristiani in Afghanistan, soprattutto perché la Costituzione è basata sui principi islamici. Inoltre, l’islam è la religione di Stato e le leggi non possono contraddire le credenze e i provvedimenti prescritti dall’islam. Il 2009 è stato duro per i credenti, perché l’influenza dell’islam è aumentata con l’espansione del potere talebano in molte province. I talebani hanno minacciato gli operatori stranieri, le organizzazioni umanitarie cristiane e i cristiani locali. La pressione sociale da parte della famiglia e della società è ancora enorme sui cristiani; di fatto coloro che non hanno nascosto la loro conversione al Cristianesimo, hanno spesso ricevuto minacce di violenza e persino di morte, anche nei confronti dei familiari. Le minacce hanno lo scopo di incutere terrore e di costringere i credenti a rinunciare alla loro nuova fede. In alcuni casi i neoconvertiti sono stati picchiati, altri sono stati rapiti; affrontano inoltre discriminazioni a scuola, al lavoro e nei loro rapporti con le autorità. Di conseguenza la maggior parte dei cristiani non esprime pubblicamente la propria fede e non si sente libera di assistere a riunioni cristiane. Per quanto ne sappiamo, a differenza del 2008, nel 2009 nessuno è stato ucciso a causa della fede. Malgrado tutte le discriminazioni, il Cristianesimo continua a crescere in Afghanistan.

Fonte: Porte Aperte Italia

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Afghanistan – «Regalano la Bibbia»: ulema contro le Ong

I capi religiosi afghani chiedono al presidente Karzai di fermare «i missionari che fanno proselitismo»

«Ripristini le esecuzioni pubbliche»

DA KABUL
Chiedono di fermare le presunte attività di «proselitismo». E chiedono di ripristinare «le esecuzioni pubbliche». Si fa sempre più “insistente” il pressing del Consiglio islamico afghano, l’influente organo religioso formato dagli ulema e da altri leader religiosi del Paese, sul presidente dell’Afghanistan, Hamid Karzai. Nel mirino dei capi religiosi la presunta attività di proselitismo svolta, a dire degli ulema stessi, da gruppi umanitari stranieri. «Il Consiglio (islamico) è preoccupato dall’attività di alcuni organi missionari o atei e considererà tali attività come contrarie alla sharia (la legge islamica), alla Costituzione e alla stabilità politica» dell’Afghanistan, recita il documento presentato a Karzai, e reso noto dall’agenzia Reuters. Il pericolo che, secondo i capi religiosi, correrebbe l’Afghanistan è addirittura «la catastrofe»: «Se non si pone rimedio – si legge ancora nel documento –, ne scaturirà, che Dio non voglia, una catastrofe che non destabilizzerebbe solo il Paese, ma anche la regione e il mondo intero», scrivono ancora gli ulema afghani, secondo i quali i «missionari» cristiani avrebbero uffici a Kabul e nelle province preposti a «convertire» i musulmani. «Alcune Ong – si legge ancora nel documento del Consiglio islamico – incoraggiano (gli afghani) regalando loro libri (la Bibbia) e promettendo di farli andare all’estero». I leader religiosi chiedono inoltre di ripristinare, come avveniva durante il regime dei taleban, le esecuzioni pubbliche, almeno per omicidio, la mano dura contro la corruzione e la messa al bando dalla televisioni delle soap opera indiane, molto popolari in Afghanistan, bollate come «immorali e oscene». Non è la prima volta che gli ulema agitano «lo spettro» della penetrazione «religiosa»: un’arma politica per aizzare gli animi. E che in alcuni casi si è tradotta in “azione” da parte degli stessi taleban. Lo scorso 19 luglio nella provincia di Ghazni, nell’Afghanistan del sud, venne sequestrato un gruppo di 23 volontari cristiani evangelici sudcoreani. Due di loro vennero uccisi pochi giorni dopo il rapimento, gli altri furono liberati a distanza di alcune settimane, e dopo il pagamento di un riscatto. Tra le condizione poste dal gruppo di rapitori anche il ritiro del contingente militare di Seul dall’Afghanistan e la cessazione di ogni attività dei gruppi missionari sudcoreani entro la fine dell’anno. Nel 2006 quando scoppiò il “caso” di Abdul Rahman, il cittadino afghano convertito al cristianesimo e poi riparato in un Paese straniero, gli stessi ulema erano i prima linea per chiedere la condanna a morte del convertito. ( R.E.)

Fonte: Avvenire.it – 6 gennaio 2007

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