Il sogno di Tischendorf realizzato (ma solo in rete)

Un progetto internazionale per riunire le diverse parti del codice Sinaitico

di Silvia Guidi

Codex Sinaiticus On Line

Uno dei libri più preziosi al mondo sarà consultabile in rete; digitando www.e-manuscripts.org chiunque potrà rivivere l’emozione di Constantin von Tischendorf, il cacciatore di manoscritti biblici che nel 1844 ha scoperto il codice Sinaitico – uno dei testimoni su cui si fonda la nostra conoscenza della Bibbia greca (nella versione detta dei Settanta) – e leggere la splendida scrittura maiuscola che copre i quasi quattrocenti fogli di pergamena che compongono il testo (degi oltre settecento originari).
Abbiamo chiesto a Francesco D’Aiuto, che insegna Filologia e Storia bizantina all’università di Roma Tor Vergata e si è occupato spesso di manoscritti greci antichi e medievali della Bibbia, di illustrarci la storia affascinante e avventurosa di questo testo. Nel 2003, lavorando in mezzo ai manoscritti della Biblioteca Vaticana, D’Aiuto scoprì dei frammenti palinsesti di un manoscritto greco del iv secolo dell’era cristiana contenente una commedia di Menandro sino ad allora sconosciuta. Tre anni prima aveva collaborato all’allestimento per il Giubileo della grande esposizione di manoscritti biblici “I Vangeli dei Popoli”.

Il progetto del Sinaitico virtuale è molto ambizioso, ma in realtà per il momento solo una parte del codice è stata digitalizzata e messa a disposizione in rete…

Sì, in effetti questi sono soltanto i primi risultati di un progetto internazionale, che coinvolge la British Library, il Monastero di Santa Caterina sul Sinai, la Biblioteca Nazionale di San Pietroburgo e quella universitaria di Lipsia. Il progetto, secondo le previsioni, dovrebbe concludersi nel 2010, con il completamento della digitalizzazione del codice e con la messa a disposizione di tutti gli utenti della rete, credo gratuitamente, di immagini ad alta risoluzione dell’intero manoscritto: almeno per quel che ne è giunto sino a noi, e che ora si conserva diviso proprio fra le quattro biblioteche impegnate nel progetto. Perché in effetti il manoscritto, oltre ad aver subito nei secoli perdite che lo hanno mutilato gravemente, ha avuto anche vicende travagliate sin dal suo ritrovamento nel Monastero del Sinai alla metà dell’Ottocento: ed è per questo che i suoi fogli si trovano ora dispersi. Un motivo in più per attendere con impazienza il momento in cui le varie parti saranno ricomposte virtualmente. Dai nostri computer potremo finalmente sfogliare la copia elettronica del manoscritto come fosse ancora un insieme unico.

Sarà interessante anche per i non addetti ai lavori poter scorrere le immagini di questo manoscritto, ingrandire le annotazioni scritte a margine, vedere da vicino le correzioni interlineari…

Certo, è una grande emozione per chiunque. Neanche per gli specialisti è facile accedere a questi documenti. Manoscritti così antichi e importanti, e spesso in uno stato di conservazione tanto precario, sono trattati come cimeli dalle biblioteche che li possiedono. E allora per preservarli meglio per il futuro si finisce in genere per sottrarli alla consultazione diretta: ne viene negata la visione persino agli studiosi, a meno che non documentino di volerli esaminare per necessità di ricerca più che serie. E allora è chiaro che una digitalizzazione integrale può avere una funzione chiave per il rilancio degli studi su un simile manoscritto. Intendiamoci, non che il suo testo non sia stato finora trascritto, studiato e utilizzato in tutti i modi per stabilire il testo greco della Bibbia. Ma il fatto è che tutte le trascrizioni del Sinaitico finora compiute, tutti i facsimili litografici o fotografici che sono stati pubblicati a partire dalla sua scoperta ottocentesca, saranno chiaramente superati, quanto a fedeltà e utilità, dalle riproduzioni che saranno messe in rete. Immagini che potranno essere viste, riviste, controllate, e inoltre ingrandite per “entrarci” dentro, fin nel dettaglio più minuto. E agli specialisti, se non la visione diretta dell’originale, almeno una buona immagine del manoscritto ad alta definizione, può rivelare elementi che qualunque trascrizione del testo, o qualunque descrizione a parole del suo aspetto, non saprebbe restituire in alcun modo.

C’è da dire però che il lettore comune, anche se conosce il greco antico, troverà grosse difficoltà nel leggere il testo di questo manoscritto a partire dalle immagini che si vedono in rete.

Sì, è vero. La difficoltà non sta tanto nella scrittura, che è una bella maiuscola tutto sommato ben leggibile, in cui le singole lettere sono molto simili alle lettere greche maiuscole che oggi si usano per la stampa dei libri. Insomma, forme alfabetiche che sono familiari anche a chi abbia fatto semplici studi liceali di greco. L’ostacolo maggiore, invece, sta nel fatto che, secondo l’uso proprio dell’antichità e dell’alto medioevo, il testo è scritto come se fosse un’unica sequenza continuativa di lettere: non ci sono spazi bianchi a dividere l’una dall’altra le singole parole. D’altra parte, la lettura stessa, che in epoca antica avveniva di solito ad alta voce e non in maniera silenziosa e interiorizzata come oggi, doveva essere un grande aiuto per la comprensione del testo: che invece riesce difficile per noi, anche per altri motivi. Come se non bastasse, infatti, in questi manoscritti anche la punteggiatura è molto scarsa, e non conforme agli usi attuali, che si sono generalizzati solo dopo l’invenzione della stampa.
Un’aggravante ulteriore, poi, riguarda il greco: in manoscritti così antichi mancano quasi completamente gli accenti delle parole, così come sono assenti gli spiriti e tutti gli altri segni che a noi sono molto utili per distinguere parole greche che si somigliano, e dunque per comprendere meglio il testo. Lei capisce che, in queste condizioni, leggere e capire il testo greco di un manoscritto del genere può risultare molto difficile al lettore comune che non abbia fatto studi di filologia greca, e anche di paleografia.

Può spiegarci perché il Sinaitico è così importante?

In due parole, è uno di quei pochi manoscritti antichissimi che stanno alla base di tutte le nostre edizioni della Bibbia greca. Copiato su quattro colonne (su due per i libri poetici) contiene anche due testi patristici, la Lettera di Barnaba e il Pastore di Erma. Risale alla prima metà del iv secolo dell’era cristiana, insieme al codice b della Biblioteca Vaticana, il cosiddetto Codice Vaticano, altro pilastro della tradizione manoscritta della Bibbia Greca. Questi due codici – insieme all’Alessandrino della British Library che è più tardo, del v secolo, e a qualche altro manoscritto antico – ci permettono di avvicinarci quanto più è possibile alla data della composizione in greco degli scritti del Nuovo Testamento, e, più indietro, alla data della traduzione dall’ebraico in greco di quelli dell’Antico. La testimonianza offerta da questi manoscritti di pergamena, arrivati fino a noi più o meno integri attraverso i secoli per via di conservazione bibliotecaria, viene affiancata poi dai papiri biblici estratti nell’ultimo secolo e mezzo dalle sabbie del deserto egiziano: papiri anch’essi di grande valore, sebbene spesso frammentari e mal ridotti, e in parte più antichi di quei grandi manoscritti pergamenacei.
È dal confronto critico fra tutti questi testimoni, su pergamena o su papiro, che nasce il nostro testo greco a stampa della Sacra Scrittura: un testo che grazie a questo serrato confronto (parola per parola, lettera per lettera), si cerca di emendare dai guasti e dalle modificazioni che ha subìto nei secoli.
Perché, si sa, copiando a mano si modifica sempre, consapevolmente o no, ciò che si trascrive. E gli errori e i mutamenti si moltiplicano quanto più ci si allontana, con le copie delle copie, dall’originale. Fra tutti gli altri manoscritti, allora, il Sinaitico e il Vaticano codice B della Vaticana hanno un’importanza fondamentale e godono di un’autorevolezza indiscussa, sia per la loro antichità sia per il comune ambito storico-culturale in cui probabilmente sono stati realizzati.

Quindi si deve pensare a una probabile origine comune dei due manoscritti?

Si tratta, in realtà, di una vecchia ipotesi, che è stata di recente ribadita, in un articolo del 1999 nel “Journal of Theological Studies”, da un noto papirologo e biblista scomparso nel 2003, Theodore Cressy Skeat. L’ipotesi è che il Vaticano e il Sinaitico siano le due uniche superstiti fra le cinquanta Bibbie che, come sappiamo, l’imperatore Costantino (306-337), il primo imperatore romano ad abbracciare il cristianesimo, commissionò a Eusebio vescovo di Cesarea di Palestina, per farne dono alle chiese di Costantinopoli: ovvero, di quella nuova capitale imperiale che era stata da lui fondata sul Corno d’Oro, sul sito dell’antica colonia greca di Byzantion. Insomma, la città che conosciamo anche come Bisanzio, cioè la capitale di quell’impero bizantino che, in fondo, non rappresenta altro che l’ininterrotta continuità politica e istituzionale della pars Orientis dell’impero romano, per altri mille anni dopo la cosiddetta fine dell’impero romano d’occidente.. Ora, l’ipotesi che i due venerandi manoscritti biblici di cui abbiamo parlato – e che effettivamente per la loro scrittura si possono attribuire al iv secolo – siano parte della committenza libraria di Costantino, e che dunque abbiano visto la luce a Cesarea di Palestina, sotto la direzione di Eusebio, trova sostegno in una serie di indizi di varia natura, e in nuove osservazioni sui manoscritti.

Quali sono gli elementi a favore dell’ipotesi “costantiniana”?

Tralascio tutta una serie di elementi di natura testuale, difficili da riassumere qui: spunti suggestivi, ma non dirimenti. Forse l’indizio più interessante sta in un dato materiale dei due manoscritti: perché Theodore Cressy Skeat riconosce, in alcune sezioni di ambedue i manoscritti, uno stesso calligrafo. In effetti, questa identificazione della mano del copista sembra piuttosto plausibile (nonostante la difficoltà di confronto fra i due codici, perché il manoscritto Vaticano fu completamente ripassato secoli più tardi per ravvivarne l’inchiostro, ormai sbiadito). E anche la notevole somiglianza di disegno fra gli elementi decorativi che incorniciano i titoli dei singoli libri biblici, in entrambi i manoscritti, pare confermarlo.
Allora, saremmo di fronte a una prova del fatto che, se non altro, ambedue i manoscritti, due libri di gran lusso, sono prodotto di uno stesso raffinato atelier di calligrafia del iv secolo: un atelier in cui si trascrisse più volte lo stesso testo biblico in una sorta di edizione di prestigio. A questo punto, ci si deve chiedere dove, e per chi. E il passo che porta alle Bibbie di Costantino diventa breve.

Una storia affascinante. Come pure affascinanti, quasi da romanzo poliziesco, sono le vicende più recenti, che portarono il Sinaitico dal Monastero di Santa Caterina sul Sinai all’attuale dispersione dei suoi fogli fra Lipsia, San Pietroburgo e Londra.

Sono vicende intricate, in effetti. Si tratta, fra l’altro, di una storia ancora controversa, che tocca diverse suscettibilità a livello nazionale e istituzionale. Provo a riassumerla in breve, partendo dal momento della scoperta del codice. Fu il biblista tedesco Constantin von Tischendorf (1815-1874), che, nel corso di un viaggio in Egitto intrapreso nel 1844, scoprì nel monastero di Santa Caterina sul Sinai una prima parte del manoscritto: già allora doveva essere smembrato e non conservato nel migliore dei modi. Avendone subito capito l’importanza, ottenne dai monaci il permesso di portarne 43 fogli a Lipsia, dove curò la riproduzione in litografia e la pubblicazione di quella parte.
Tischendorf tornò più tardi, nel 1859, sul Sinai: vi ritrovò, insieme ad altri fogli che aveva già visto nel 1846, anche il grosso del codice, almeno per quanto ancor oggi ne sopravvive. Grazie all’appoggio dell’ambasciatore russo a Costantinopoli, il principe Lobanov-Rostovskij, ottenne in prestito anche il resto del manoscritto, che stavolta portò a San Pietroburgo, dove nel 1862 ne pubblicò un facsimile litografico in quattro volumi.
Sponsor di Tischendorf era diventato, a questo punto, lo zar Alessandro ii. E nel 1869, infine, dopo complesse trattative non ancora del tutto chiarite, lo zar ottenne definitivamente in dono il codice dal monastero di Santa Caterina sul Sinai, che contestualmente ricevette una donazione di ben novemila rubli. Non che non si fossero alzate voci di protesta, e chiacchiere sulla presunta illiceità del trasferimento del codice a San Pietroburgo; ancor oggi ufficialmente le autorità sinaitiche considerano il manoscritto come sottratto da Tischendorf illegalmente.
Ma ultimamente nuove ricerche negli archivi russi, i cui primi risultati sono stati resi noti solo nel 2006 da una giovane studiosa, Anna Zakharova, confermano che questa sorta di transazione avvenne, alla fine, con il consenso dei monaci. Quando l’insieme della documentazione russa sarà pubblicato, forse capiremo se e quali pressioni ci siano state sulle autorità del monastero perché giungessero alla decisione di donare il manoscritto, del cui valore i monaci erano ormai ben consapevoli.

Dunque, prima Lipsia, poi San Pietroburgo.

Ma soprattutto Londra. Perché la storia delle peregrinazioni del codice non è finita qui. Dopo la rivoluzione russa, motivi certamente ideologici, oltre che finanziari, indussero Stalin a disfarsi di questa preziosissima Bibbia. Così, passando per un antiquario londinese, nel 1933 il grosso del codice, ovvero la parte fino ad allora conservata a San Pietroburgo, raggiunse il British Museum, venduto per centomila sterline. A San Pietroburgo, come una specie di campione per usi di studio, restarono solo cinque fogli del manoscritto… Ma ancora non basta: il monastero del Sinai, una trentina di anni fa, ha avuto dalla storia come una sorta di risarcimento simbolico. Nel 1975, nel corso di alcuni lavori di ristrutturazione sotto la cappella di San Giorgio, venne alla luce un vano murato che era rimasto sigillato più di un secolo: conteneva centinaia di vecchi manoscritti e frammenti di codici. Evidentemente quella stanza, prima di essere murata, era divenuta, per un certo periodo, una sorta di “cimitero” di libri rotti, o di fogli strappati di cui non si sapeva più la provenienza. Testi che, chissà, magari non erano stati definitivamente distrutti per rispetto, perché forse contenenti il nome o la Parola di Dio: in fondo, quella dei “cimiteri librari”, o genizah, è un’usanza ben nota.
Insomma, con tante altre scoperte molto interessanti che in gran parte aspettano ancora di essere pubblicate, da quella stanza murata vennero fuori anche dodici fogli, con altri frammenti più piccoli, del nostro Sinaitico. Ecco perché, nonostante tutto, il monastero del Sinai può oggi vantare il possesso almeno di una piccola parte del manoscritto. E c’è soprattutto da rallegrarsi del fatto che alla fine, messe da parte le dispute sul possesso e superando le gelosie istituzionali sui diritti di copyright per le immagini dei manoscritti, le quattro biblioteche che conservano fogli del codice abbiano deciso di collaborare per questo progetto comune. Che non ha solo un valore scientifico, ma, per forza di cose, finisce per avere una coloritura ecumenica, riunendo intorno a questa veneranda Bibbia studiosi e bibliotecari di diverse confessioni: un bel segno di intesa fra cristiani.

Fonte: L’Osservatore Romano 9 luglio 2008

Condividi

I commenti sono chiusi.