GERMANIA: I segreti della Shoah

Entro il 2009 il più grande archivio sull’Olocausto si aprirà agli storici. Ma l’Italia non ha ancora ratificato il protocollo.

Scritto per noi da
Veronica Fernandes

L’archivio segreto di Bad Arolsen renderà disponibili le schede sulla Shoah che custodisce dal 1955: 47 milioni di file, di cui un terzo è già stato digitalizzato e inviato in doppia copia al Museo dell’Olocausto di Washington e allo Yed Vashem di Gerusalemme.

Bad Arolsen. Situata al centro di quelle che erano le quattro zone di occupazione e con le infrastrutture in buono stato, questa città tedesca è stata scelta per raccogliere tutti i documenti rinvenuti nei campi di concentramento dopo l’arrivo degli Alleati. Nei 26 kilometri di archivio ci sono i registri trovati negli ospedali, negli alloggi della Gestapo e negli armadi delle SS: tutte le informazioni che qualcuno ha riportato su carta. Bad Arolsen contiene i registri di morte, l’elenco degli informatori e degli arresti, le motivazioni per cui una persona si trovava nel campo e anche la lista di chi aveva deciso di collaborare per sopravvivere. Una sezione è dedicata alle cartelle cliniche degli internati, di cui si possono sapere le malattie e le malformazioni, oltre a particolari degli esperimenti medici che venivano condotti nei campi. Le SS annotavano tutto, e si può risalire anche alla vita sessuale di molte vittime: chi faceva la prostituta, chi era accusato di reati come l’incesto o la pedofilia, chi era omosessuale. Tra queste informazioni di cittadini comuni, emergono anche informazioni famose come la Schindler’s list (i 1000 ebrei salvati da Oskar Schilndler e raccontati da Spielberg), la scheda di Anna Frank e il Totenbuch di Mathausen. Fino a oggi agli studiosi era vietato l’ingresso, e delle 150.000 richieste di consultazione che ricevevano all’anno solo poche erano esaudite. Per entrare a Bad Arolsen le regole sono rigide. Entrano i sopravvissuti, chi ha avuto parenti scomparsi nei lager o i loro legali, chi era residente nel Reich tra il 1939 e 1945 e chi era minorenne negli anni della guerra ed è stato separato dai genitori. Ovviamente, possono consultare solo i file che li riguardano.

Chi fa le regole. Gli Alleati, alla fine della Seconda guerra mondiale, hanno affidato i documenti alla Croce rossa internazionale. Nel 1955, undici Paesi (Belgio, Olanda, Francia, Polonia, Germania, Lussemburgo, Usa, Germania, Grecia, Italia e Israele) si sono accordati per la gestione dell’archivio e hanno firmato il Trattato di Bonn, che ne ha vietato la divulgazione e la pubblicazione. Una minima parte era consultabile dalle famiglie delle vittime, il resto sotto chiave. A custodire l’archivio viene creato un organismo apposito, l’International tracking service (Its), con sede a Ginerva, e l’obbligo di avere uno svizzero alla poltrona di direttore.
Nel 1999 lo stesso Its ha iniziato a prendere posizione per l’apertura dell’archivio agli studiosi. “E’ giusto dare libera circolazione e libero accesso a queste informazioni”, ha detto il direttore Reto Meister. Concordano gli Usa con Edward O’Donnell, il responsabile per le questioni relative all’Olocausto, che ripete in più occasioni che “Il governo Usa auspica l’apertura di tutti i documenti sulla Shoah”. A opporre resistenza è più che altro la Germania: teme di dover pagare ulteriori riparazioni, vuole prima chiarire la sua posizione legale. In più, ha una legge sulla privacy molto più restrittiva di quella statunitense. Ma dopo varie consultazioni con il direttore del Museo dell’Olocausto di Washington Sara Bloomfied, il ministro della Giustizia Brigitte Zypries annuncia che la Germania ha dato il suo assenso. E il 26 luglio del 2006 il Trattato di Bonn viene modificato: i 47 milioni di file di Bad Arolsen verranno digitalizzati e trasferiti in Usa e Israele. Per ora il lavoro è stato fatto su 12 milioni di schede, una prima tranche, mentre il progetto si concluderà nel 2009.

La posizione dell’Italia. A un anno dalla firma, a Roma non si parla di ratifica delle modifiche al trattato. Il 4 aprile del 2007, in una seduta della Camera, il deputato del Nuovo Psi Lucio Barani propone di demandare la gestione dell’archivio all’Unione europea. Ma dato che Usa e Israele non ne fanno parte, qualsiasi decisione sarebbe mutilata. Liliana Picciotto, del Centro di documentazione ebraica di Milano, ha spiegato a Peacereporter che la reticenza dell’Italia é legata a cavilli legali. “Non teme di dover pagare nulla – ha detto – non ha coscienza delle sue responsabilità. A bloccare la ratifica sono la legge sulla privacy e il regolamento sugli archivi di stato”, con cui il provvedimento dei firmatari di Bonn è incompatibile. All’articolo 122 del Decreto legislativo 42 del 21 gennaio 2004, si legge che “gli archivi storici contenenti dati sensibili sulla salute, la vita sessuale o rapporti riservati di tipo familiare possono essere aperti solo dopo 70 anni”. Che dal 1955 non sono ancora passati. Quindi, nel dubbio e in buona compagnia (non hanno ratificato nemmeno Francia e Grecia), l’Italia temporeggia.

Fonte: PeaceReporter – riprodotto con autorizzazione, 07.09.2007

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